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C’era una volta in Bhutan (The Monk and the Gun)

 

 

Tutto comincia con un monaco che attraversa un campo di frumento, una bombola del gas caricata sulle spalle.

Niente male come overture.

Mi appunto mentalmente l’immagine.

Penso che il cinema non morirà mai. Sorrido.

Il monaco arriva dal suo Lama.

In sottofondo sentiamo un televisore. Parla di elezioni.

Alcune righe sullo schermo ci informano che siamo nel Bhutan, che quello è il 2006, che il re ha deciso di abdicare e di indire le prime elezioni democratiche della storia, avviando alla modernità il suo piccolo stato nel cuore dell’Himalaya.

Il Lama ordina al monaco di trovargli due armi da fuoco.

Il maestro spirituale di una religione fondata sulla non-violenza che ordina a un suo discepolo di procurargli due strumenti di violenza.

Niente male come richiesta.

Lo sconcerto del giovane è grande, e anche il nostro in sala. Ma chiedere oltre non è dato. Il Lama è il Lama. Sa ciò che dice e ciò che ordina.

 

 

A questo punto The Monk and The Gun si biforca. Da un lato, comincia l’avventura: il monaco, pronto a tutto pur di esaudire il desiderio del suo capo spirituale, si mette alla ricerca delle armi da fuoco. Dall’altro, il film prende a occuparsi di ciò che abbiamo sentito alla televisione: le imminenti elezioni.

Come insegnare il meccanismo della democrazia a un popolo che ha sempre vissuto in una monarchia, e che non ha una coscienza politica?

Si simulano finte elezioni, in preparazione di quelle vere.

Seguiamo allora alcuni funzionari statali che fanno la ronda di villaggio in villaggio per spiegare l’importanza del voto, e come scegliere il proprio candidato.

La prospettiva che ci viene offerta è intrigante: noi siamo nati e cresciuti circondati dalla democrazia, e dandola spesso per scontata. Qui vediamo tutto attraverso l’occhio candido di chi non sa nemmeno cosa sia. Eppure non c’è traccia di bonsauvagismo. L’aspetto intrigante e, di riflesso, destabilizzante per noi, riguarda la perplessità dei bhutanesi: abbiamo vissuto in pace per centinaia di anni, perché cambiare le cose? Noi, occidentali in piena crisi d’identità, alle prese con un concetto di democrazia sempre più liso e svuotato, ci troviamo a porci lo stesso interrogativo: ma se i bhutanesi stavano bene così, perché spingerli nel tritatutto della modernizzazione?

 

 

Siamo talmente orgogliosi del nostro modello democratico che da anni guidiamo ― evoluto, globale, cutting-edge ― da ignorare le grosse ammaccature che gli abbiamo procurato lungo la via. Il film ci obbliga a fermarci, scendere dalla macchina e fare la conta dei danni.

Prendiamo atto che il moderno-democratico, non arriva mai solo, ma con tutto il suo carrozzone di strategie, slogan e colpi bassi dove molto spesso, a dominare la scena, non è il confronto civile, bensì l’animosità. Nella scena in cui viene simulato un comizio pubblico, e in cui i bhutanesi vengono fatti inveire contro i sostenitori del partito avversario, i cittadini ubbidiscono e inveiscono, ma lo spaesamento fra loro è palpabile. Noi spettatori simpatizziamo all’istante. Ci chiediamo: ma quella — la nostra — è vera democrazia? Vera civiltà? I dibattiti politici a cui assistiamo, con toni sempre più violenti ed epiteti sempre più volanti, sono davvero prova di progresso e avanzamento sociale?

Lungi dall’essere reazionario, il film parla dell’ingresso del Bhutan nel mondo del terzo millennio, ma con esso mette anche in discussione il manifesto su progresso e innovazione scritto, seguito e sbandierato dall’Occidente, e certa retorica dem a cui ormai non riusciamo più a credere.

Nel frattempo, la ricerca delle armi da fuoco continua, e apre la via al terzo filone narrativo del film: il monaco s’imbatte in un bhutanese a corto di soldi che fa da guida a un americano molto allocco giunto in Bhutan per acquistare un antico fucile, e disposto a sborsare qualsiasi cifra pur di tornare in patria con l’ambito pezzo da collezione. Comincia così una duplice caccia alle armi condita da un divertente gioco degli equivoci che lascerà l’americano con un palmo di naso.

E una scultura.

Una grossa scultura in legno di forma fallica: il fallo, nella cultura bhutanese, è simbolo di prosperità e buon auspicio, gli spiega il Lama, donandogliela.

Se la scena di apertura ci aveva colpito, questa ci ha proprio conquistato: un americano armaiolo, fuori dalla sua comfort zone e convinto di poter comprare tutto a suon di dollari, finisce con un nulla di fatto, e un fallo gigantesco tra le braccia.

Solo l’Alighieri avrebbe potuto uscirsene con un contrappasso di tale effetto.

L’Alighieri, o i fratelli Coen.

 

Ho guardato The Monk and The Gun all’Angelika Film Center, un cinema di New York noto per essere indie e frequentato solitamente da cinefili con palati più o meno raffinati. Ebbene, i risolini che si sono sollevati avevano tutti la tisica consistenza dell’imbarazzo, non il sano vigore del divertimento. Le uniche risate scoppiate in sala, e riecheggiate giù per le file, sono state le mie. Certo, io non sono americana, ed è l’americano a far la figura del grullo. Ma questo dovrebbe essere il bello del cinema, no? Far scattare nello spettatore quella santa leva, sempre sia lodata, dell’autoironia. E per inciso, nessuno è immune alla beffa: se generalizziamo e consideriamo l’americano il simbolo dell’Occidente, eccomi subito grulla anch’io.

Forse agli americani serve del tempo per processare una rappresentazione di sé tanto essenziale e poco lusinghiera — borderline caricaturale anche, sì. Vedersi ridotti così ai minimi termini — armi e soldi, passioni-ossessioni del capitalismo stelle-e-strisce, della riuscita individuale a ogni costo — deve toccare corde profonde che si preferisce lasciare intoccate, oppure rintracciare in un generico altro da sé: noi newyorkesi non siamo loro; noi proibiamo le armi; noi siamo grandi money-maker, ma anche grandi donor… E via di questo passo. Le coscienze si lavano anche così, in riva all’Hudson.

La questione abbraccia anche un altro aspetto. Quando un funzionario statale bhutanese esprime all’americano tutta la sua ammirazione per gli Stati Uniti — “la terra della democrazia e della libertà!” — citando Lincoln, l’americano lo guarda smarrito. Quello smarrimento, su cui la cinepresa del regista sapientemente indugia, era percepibile tra gli spettatori in sala. Lo scetticismo non è una lingua che gli americani parlano volentieri, ma i newyorkesi sono più disincantati dell’americano incantato medio, e mi auspico che, in seno ai presenti, un po’ di sano sarcasmo sia serpeggiato così come è serpeggiato in me — l’America la terra della democrazia e delle libertà? Seh, ai tempi di Lincoln magari…

 

 

The Monk and The Gun unisce in maniera organica e ben equilibrata l’azione e la riflessione. Ci divertiamo a seguire le peripezie del monaco e dell’americano con il bhutanese al seguito, ma allo stesso tempo ci interroghiamo sull’impatto che valori imposti dall’esterno possono esercitare su una società antichissima e di natura pacifica. Al contempo, con naturalezza, impariamo. Non c’è nulla di strettamente didattico nel film, ma guardarlo significa entrare in una parte di mondo di cui sappiamo davvero poco o nulla, quindi il viaggio che intraprendiamo assume anche, giocoforza, rilievo antropologico. Pawo Choyning Dorji è bravo perché ci accompagna per la sua terra, ma non fa il maestro: rimane regista dall’inizio alla fine. Lo stesso aveva fatto nel 2019 con Lunana, un altro davide di film che si era conquistato la candidatura fra i golia degli Oscar, proprio come The Monk and The Gun si è conquistato quella del 2024: nel giro di quattro anni Dorji ha portato il Bhutan davanti all’Academy, a Hollywood, per ben due volte.

Niente male come impresa.

Sempre sul fronte riconoscimenti, il film si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria all’ultima Festa del Cinema di Roma, e verrà distribuito in Italia.

The Monk and The Gun si chiude su una distesa di fiori: hanno rimpiazzato le spighe dell’apertura. Il monaco che solca questo bel mare rosa è sempre lo stesso, e sempre la stessa è la bombola del gas che si porta sulle spalle. Come a dire: le stagioni cambiano, e così i tempi, ma certe cose possono anche rimanere invariate.

Con la sua opera intrisa di gentile umorismo, ironia e levità, Dorji ci mette una pulce nell’orecchio. Bene 007, la Coca Cola e il tubo catodico, ma bene anche custodire e coltivare il segreto che ha permesso a un popolo di essere civile per secoli.

Senza 007, Coca Cola e tubo catodico.

 

 

 

Titolo originale: The monk and the gun
Regia: Pawo Choyning Dorji
Attori: Harry Einhorn, Tandin Wangchuk, Tandin Sonam
Genere: Commedia, drammatico
Anno: 2023
Paese: USA
Durata: 107 min
Data di uscita: 30 aprile 2024
Distribuzione: Officine UBU

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