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Ma chi sono questi buddhisti in Italia?

 

 

Il 12 marzo gli unici ammessi senza giacca nella Sala degli Atti Parlamentari presso la Biblioteca del Senato «Giovanni Spadolini» a Roma sono i monaci buddhisti avvolti nei loro abiti e nella loro mitezza appuntita come sganciati dalle convenzioni di etichetta e dagli affanni della moda, mentre tutti gli altri sembrano avvertire i nodi delle proprie cravatte farsi di colpo più soffocanti intorno al collo.

 

L’occasione è quella della presentazione del primo studio italiano ed europeo dal titolo «Il Buddhismo in Italia – Una ricerca sull’Unione Buddhista Italiana», promossa dall’UBI e realizzata in collaborazione con un gruppo di ricercatori delle Università di Padova e Torino.

 

Lo studio si propone di tratteggiare i molteplici volti del Buddhismo in Italia nel tentativo di delinearne i connotati e le motivazioni dentro e fuori i centri Ubi e di sondare le percezioni che gli italiani non buddhisti si sono formati nel guado tra stereotipi e conoscenze approssimative.

 

 

L’esplorazione di tali pregiudizi si declina spesso in una  curiosità positiva, del tipo: io non sono buddhista ma… ho tanti amici che lo sono e ho guardato tanti film sul tema, Brad Pitt in «Sette anni in Tibet» ha divulgato i valori zen contribuendo ad alimentare una certa simpatia per la pratica buddhista che da l’idea di favorire lo sviluppo della vita spirituale. A guardarli da vicino poi, questi buddhisti in fondo sembrano anche normali proprio come noi, non indossano abiti di puro lino anche in inverno, non corrispondono all’immagine di fricchettoni alternativi e hanno gli occhi sorridenti.

 

Per raccontarli in modo più approfondito i ricercatori hanno applicato una metodologia in grado di combinare approcci qualitativi e quantitativi su un campione significativo di intervistati tra buddhisti partecipanti alle attività dei centri UBI,  non afferenti all’UBI e non buddhisti.

 

Le domande di ricerca che hanno guidato l’indagine hanno restituito un’immagine nitida dell’identità, delle pratiche e delle credenze dei praticanti e hanno approfondito le rappresentazioni che gli italiani che non si identificano con questa religione hanno dei praticanti buddhisti nel paese.

 

Se partiamo dai numeri dell’ultimo rapporto realizzato da CESNUR (2022) i praticanti buddhisti in Italia sono 342mila, pari allo 0,6% della popolazione residente, tra i frequentanti dei centri dell’Unione Buddhista Italiana la componente femminile tocca la significativa quota del 58%, con un profilo socioeconomico e culturale mediamente alto e a differenza delle basse percentuali delle altre religioni nei centri aderenti all’UBI si riscontra il 30% di ruoli di responsabilità direttiva affidati a donne.

 

 

Dalle interviste emerge con chiarezza un intreccio di motivazioni che hanno spinto verso il Buddhismo persone in cerca di sollievo dalle sofferenze esistenziali insieme all’insoddisfazione nei confronti dei valori dominanti nella società e verso la scarsa efficacia percepita nelle risposte fornite dalle religioni di provenienza. Il cammino di ricerca che porta verso il Buddhismo è quindi guidato principalmente da ragioni di salute e benessere personale, da un’indagine di natura spirituale oppure attraverso reti famigliari.

 

Per sintetizzare la traiettoria della percezione dei buddhisti in Italia nel corso degli ultimi cinquant’anni bisogna partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando qui era tutta campagna di (in)formazione cattolica e il seme di un altro sentimento religioso faticava ad attecchire sul terreno duro dello status quo o al massimo germogliava selvatico sotto la luce dell’esotismo e della stravaganza.

 

All’epoca il Buddhismo era percepito come fenomeno minoritario, come tendenza orientaleggiante e benevola ma ai margini della società, mentre col passare degli anni ha progressivamente iniziato ad essere considerato capace di annientare le distinzioni classiche tra sacro e profano, tra religione e spiritualità, slegato dai dogmi delle tradizioni religiose, attento ai temi dell’ambiente e al rispetto dei diritti umani, aperto nei confronti delle scoperte scientifiche, strutturato in modo flessibile, con una leadership ottimista, istruita, inclusiva, attenta alla parità di genere e con praticanti fidelizzati.

 

Il Buddhismo si colloca non come un’altra religione ma come un modo diverso d’intendere la religione che porta alla coabitazione di identità multiple, dove non c’è una teologia ma dottrine, dove l’apertura al dialogo interreligioso è parte integrante della narrazione, dove non si avverte come obbligata la conversione e per questo è possibile tenere insieme credenze diverse.

 

Non a caso il 36,3% degli intervistati lo considera una filosofia di vita, il 18,7% una religione, il 13,5% lo associa all’amore universale e alla compassione, e il 13,1% ad una scienza della mente.

 

In rapporto alle altre religioni, il Buddhismo è percepito dagli italiani come poco aggressivo, non interessato a fare proseliti, concentrato sulle pratiche quotidiane al servizio della ricerca interiore, spesso anche con risvolti terapeutici, una vera e propria tecnica di sopravvivenza per affrontare crisi personali, nel rispetto della natura e dei bisogni profondi degli individui e privo del concetto di senso di colpa o di divinità giudicanti.

 

La ricerca di un senso per la propria esistenza sembra accomunare credenti e non credenti, ma le modalità di risposta a tale esigenza appaiono piuttosto diverse a seconda dei casi.

 

Nella percezione diffusa il Buddhismo sembra offrire risposte flessibili, molteplici e duttili nel contesto sociale contemporaneo ma resta un fenomeno complesso da definire in maniera univoca poiché fortemente articolato al suo interno con una pluralità di tradizioni e ambiti culturali e religiosi. In Italia ad esempio vanno tenute in considerazione anche la galassia di comunità buddhiste di origine etnica, legate ai flussi migratori, di origine dello Sri-Lanka, della Cina, Thailandia, Vietnam e Cambogia.

 

A prescindere dalle sue derivazioni il Buddhismo è apprezzato e percepito come pacifico, non autoritario e in crescita nel nostro paese a causa da una parte della crisi socio religiosa e dall’altra di un crescente bisogno di spiritualità. Un interesse dovuto anche alla sempre maggiore influenza delle spiritualità alternative, alla narrativa della relazione tra Oriente e Occidente, all’avvento dei social media e all’influenza di alcuni testimonial di grande fama, come la figura del Dalai Lama che gode di grande popolarità presso gli intervistati non buddhisti che lo percepiscono come il leader mondiale del Buddhismo.

 

Gli immaginari del Buddhismo in Italia hanno preso forma intorno a una rappresentazione stereotipata e parziale derivante dalla fruizione di film, musica e letteratura  in cui il Buddhismo è raccontato come altamente trasformativo e mistico. A fronte di una conoscenza approssimativa dell’argomento però la percezione generale è che il Buddhismo sia una tradizione positiva, democratica, vicina al mondo della scienza e del benessere e, al netto di qualche riflessione più critica, la maggior parte degli intervistati ha un’immagine ecumenica di una religione inclusiva e aperta a tutti.

 

 

La percezione della dimensione di classe e di genere, gioca un ruolo importante nel definire le caratteristiche del buddhista medio nella società italiana, i non-buddhisti lo immaginano prevalentemente di sesso femminile, appartenente a una classe sociale medio alta, con buon livello di educazione e aperto a nuove forme culturali e di conoscenza rispetto alla cultura di origine.

 

Un elemento interessante che fanno emergere le impressioni dei non-buddhisti è la nebulosa di pratiche e discipline esistenti dove i confini tra spiritualità e salute sono sfumati e in parte sovrapposti. In tal senso il Buddhismo in Italia sembra configurarsi in almeno quattro tipi di attitudini: una di matrice strettamente religiosa praticata da pochi, una di moda e di facile pratica che resta più in superficie e che non necessita di una vera e propria conversione, una strettamente spirituale legata alla ricerca di senso individuale e slegata dai dogmi e dalle imposizioni delle religioni tradizionali e infine una terapeutica, il cui scopo principale è fornire tecniche e risorse per la cura di sé e per il mantenimento o la riconquista del proprio benessere fisico, psichico e/o spirituale.

 

Il quadro generale che si ricava da queste tendenze evidenzia una pluralità di visioni rispetto a cosa sia il Buddhismo e ai suoi praticanti nell’Italia di oggi e soprattutto lo differenzia nella percezione comune dal Buddhismo praticato nei suoi contesti di origine. Nella maggioranza delle interviste a non buddhisti, non emerge alcuna consapevolezza delle differenze tra le scuole esistenti.

 

La linea dominante nella rappresentazione del Buddhismo è la differenza sostanziale con le altre religioni, con particolare riferimento alla mancanza di concetti dogmatici come l’assenza di un Dio creatore, onnisciente e onnipotente, elemento che lo rende più adattabile alla vita moderna, tanto da potersi rivelare utile alla società grazie al distaccamento da presunti valori come l’aggressività, l’ossessione dal performare a tutti i costi, la frenesia, l’importanza dell’apparire.

 

Di conseguenza il Buddhismo, oltre che alla trasformazione individuale dei praticanti, appare funzionale a scopi sociali e politici a sostegno di cause come la questione dei migranti, il volontariato in quartieri periferici delle grandi metropoli italiane o nelle carceri con una generale attenzione alla salvaguardia della natura e dell’ambiente, al contrasto della disuguaglianza sociale, alla ricerca d’inclusività. Esiste quindi la convinzione che la morale buddhista possa essere d’aiuto all’umanità per progredire, come un laboratorio dove sperimentare ipotesi più appaganti, tanto in termini di qualità della vita individuale, quanto di sostenibilità sociale.

 

Tuttavia la prevalenza di un sentire progressista, soprattutto sui temi dei diritti, resta meno rilevante rispetto a quanti hanno dichiarato di tenersi informati ma di professare una forma di neutralità politica.

 

Questa ricerca inedita permette di scandagliare le profondità cangianti del Buddhismo in Italia e del suo variegato patrimonio culturale, le conseguenze e le evidenze che pone in luce sono rilevanti a livello socio politico e marcano un punto di partenza nello studio socio religioso sulle conseguenze della libertà di religione e sulle sue percezioni sociali che necessitano di un nuovo vocabolario e di una nuova grammatica di riferimento.

 

Il valore di questo studio sta nella capacità di inquadrare e mettere a fuoco una realtà complessa mostrandoci un Buddhismo percepito non solo come pratica meditativa e filosofica ma anche come uno stile di vita etico.

 

 

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