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Il Bodhisattva Kṣitigarbha in Cina e Asia centrale

 

 

In un precedente articolo pubblicato su questa pagine abbiamo presentato una traduzione di una famosa favola giapponese dal titolo I Jizō con i cappelli di paglia («Kasa Jizō»). Ma chi erano i Jizō? Dove e come nacque il loro culto? A queste, ed altre, domande cerca di dare alcune risposte questo nuovo saggio.

 

In Tibet, Cina, Corea e Giappone, con la diffusione degli insegnamenti e delle pratiche del Buddhismo Mahāyāna, fiorì anche il culto del bodhisattva Kṣitigarbha [1] famoso per la sua promessa di aiutare tutti gli esseri immersi nelle «sei condizioni d’esistenza» [2], nell’intervallo di tempo tra la morte (Parinirvāna) del Buddha della nostra era, cioè di Śakyāmuni (giap.: Shaka Nyorai) e l’avvento del Maitreya (cin.: «Mile»; giap.: «Miroku»), il Buddha del futuro [3]. Nel Buddhismo indiano sembra invece che Kṣitigarbha non abbia goduto di una particolare attenzione, infatti non fu in alcun modo menzionato in opere antecedenti il VII secolo dopo Cristo. Secondo alcuni studiosi fu solo fra il VII e l’VIII secolo che la fede in quel bodhisattva cominciò a diffondersi nel Khotan ed in Asia centrale. In quel periodo Kṣitigarbha fu introdotto nel culto dei cosiddetti Astamahā bodhisattva (cin.: «ba da pusa»; giap. : «hachi bosatsu»), cioè degli «Otto grandi bodhisatva» [4]. Una delle prime menzioni di quelle otto particolari entità spirituali comparve nel Bhaisajyaguru sūtra, un testo dedicato al «Buddha della Medicina» [5]. tradotto in cinese, nel 650 dopo Cristo, da «Xuanzang» (602-664), con il titolo di: Yaoshi liuliguang rulai benyuan gongde jing [6]. In quel sūtra si narrò di come il Buddha «Yaoshi» (cioè il: «Bhaisajaguru») fosse capace di allungare la vita ai suoi devoti, ma anche di aiutarli contro ogni forma di incidente e morte prematura e, in vista dell’inevitabile fine, di prepararli ad una buona morte e ad una migliore rinascita. Proprio perché in relazione con il Buddha «Yaoshi», gli «Otto grandi bodhisattva» furono visti come divinità protettrici capaci di allontanare ogni tipo di sfortuna e malattia e addirittura di garantire una esistenza lunga e felice.

 

Le prime brevi menzioni in lingua sanscrita di Ksitigharba comparvero nel Bodhicaryāvatāra («Entrata nelle attività dei bodhisattva») di Śantideva (fine del VII o inizi dell’ VIII secolo) [7] e nel Śiksāmuccaya (« Compendio delle istruzioni») sempre dello stesso autore [8]. La figura di quel bodhisattva, specialmente nella seconda opera pare riprendere alcuni passaggi del Daśacakra Kṣitigarbha Sūtra, cioè del «Sūtra dei dieci chakra di Kṣitigarbha» ( talvolta tradotto anche come: «Sūtra delle dieci ruote di Kṣitigarbha»; in cin: Dasheng daji Dizang shilun jing; in tib.: Sa’i nyang po’khor lo bcu pa; giap.: Daijō daijū Jizō jūrin kyō) [9], un sacro testo (oggi non più esistente in lingua sanscrita) che probabilmente fu redatto nelle regioni del Khotan, ma che, in realtà sarebbe solo un apocrifo cinese forse redatto nel VI secolo dopo Cristo. In quel sūtra furono descritti, nei minimi particolari, i vari inferni e l’impegno di Kṣitigarbha a salvare i dannati dal fardello karmico che li avrebbe imprigionati fra infiniti tormenti [10]. Di quel sacro testo, che sarà, sia pur brevemente, analizzato nel proseguo della nostra trattazione, si riferì anche il successivo Sūtra del Voto del passato di Kṣitigarbha (Dizang pusa benyuan jing; giap.: Jizō bosatsu hongan kyō), anch’esso forse di origine khotanese e tradotto in cinese tra il VI e il VII secolo d.C. Secondo quel sūtra, il bodhisattva Kṣitigarbha avrebbe fatto il voto di «non raggiungere la Buddhità sino a quando gli inferni non fossero rimasti vuoti». Quel sūtra, fra i più famosi fra quelli riguardante Kṣitigarbha, è di un interesse straordinario. Vediamone succintamente i motivi.

 

Il Dizang pusa benyuan jing è un sacro testo che coniuga gli ideali del bodhisattva con il tema della pietà filiale, così caro al Confucianesimo cinese, messo in relazione alle pratiche funerarie; inoltre, si dilunga sul concetto di rinascita e sulla credenza della sopravvivenza nell’al di là di una quiddità che sembrerebbe conservare le caratteristiche e la personalità che i defunti avrebbero posseduto in vita [11]. Inoltre, accenna ad un tema assai ostico per il più antico Buddhismo, quello del ruolo delle donne nella vita religiosa e della loro possibile salvezza nelle dimensioni celesti. Infine, fornisce una dettagliata descrizione dei reami infernali. Fare un riassunto di quel sūtra non è facile; la narrazione, suddivisa in tredici capitoli [12] si sviluppa attraverso una serie di storie precedenti alla vicende del Buddha storico Śhakyāmuni, dove alcuni dei protagonisti risultano essere delle antecedenti manifestazioni del bodhisattva Kṣitigarbha (Dizang). Il sacro racconto inizia con una sermone che il Buddha Śakyāmuni avrebbe rivolto ad una assemblea di esseri celesti in una mistica dimora, chiamata Trāyastrimśa (ossia il Cielo «dei Trentatre») situata sulla vetta del monte Sumeru [13]. Il Buddha, in quel sermone, affermò che Kṣitigarbha, all’inizio del suo percorso spirituale, dinanzi ad un ancestrale Buddha del passato chiamato « Potere/Spirito di Leone», avrebbe espresso il voto di aiutare tutti gli esseri senzienti a raggiungere la salvezza prima di immergersi nel Nirvanā definitivo. Così, secondo quella promessa, tutti coloro che avessero invocato il nome di quel bodhisattva, gli avessero offerto omaggi, cantato la sua gloria e dedicato preghiere, avrebbero evitato le pene dei reami infernali e sarebbero rinati nel Paradiso di Indra, nel Cielo Trāyastrimśa [14].

 

In quel sūtra si raccontano poi quattro storie legate alle vite passate di Kṣitigarbha. Nelle prime due appare come figlio d’un uomo d’alto rango [15] e come nobile figlia di un brahmino [16]; nelle altre, appare nelle sembianze di un giovane Re [17]e di una fanciulla, chiamata «Occhi di luce» (Guang mu), devota al Buddha [18]. Quest’ultima storia è particolarmente interessante e merita di essere ricordata. La madre della giovane, una donna piuttosto dissoluta e non religiosa, sarebbe morta senza convertirsi e con molte colpe nel cuore. Così, sarebbe rinata nell’inferno Avīchi , quello della «sofferenza incessante» [19]. La giovane, consapevole del triste destino della madre, si recò nel tempio del Buddha ed iniziò a pregare incessantemente per la salvezza della madre. Ma non contenta si privò di tutto e fece numerosissime offerte al Buddha. Cadde in trance ed una voce la guidò nei gironi infernali. I demoni ed i Re dell’inferno, ammirati per quella dimostrazione di straordinaria pietà filiale, affermarono che le sue ferventi preghiere avevano salvato la peccatrice rinata nel girone infernale dalle sofferenze. Lo spirito redento della madre grazie ai «meriti» (sans.: punya; cin.: gong de; tib.: bsod nams; giap.: kudoku) della giovane avrebbe così potuto accedere al paradiso. In seguito la fanciulla tornò tra i viventi e pronunciò nuovamente il voto di diventare un bodhisattva per aiutare tutti gli esseri ad evitare le pene infernali e a raggiungere la salvezza. Quella giovane non sarebbe stata altro che una manifestazione di Kṣitigarbha. Nel Dizang pusa benyuan jing appaiono spesso due termini assai cari al Buddhismo: «meriti» e « meriti passati» (cin.: beng sheng). Ma cosa significano esattamente quelle parole? Cosa sono quei «meriti»?

 

Secondo una definizione classica sarebbero le tendenze positive impresse nella mente come risultato di pensieri, azioni e opere buone che portano a maturare, con un’ esperienza di felicità e di benessere, dei benefici spirituali. Ma come possono, o potrebbero, i « meriti» di una persona, incidere sulla salvezza di qualcun’altro dai tormenti dell’inferno? L’argomento è piuttosto spinoso e, nei primi secoli della nostra era dette il via, all’interno delle varie Scuole filosofiche del Buddhismo Mahāyāna, ad innumerevoli dispute teologiche. Generalmente si pensò che con il « trasferimento dei meriti» (sans.: parināmanā; tib.: bsngo-ba; cin.: hui xiang; giap.: ekō), il praticante del Buddhismo Mahāyāna avrebbe potuto dedicare il frutto delle sue buone azioni, delle preghiere e delle esercitazioni spirituali a tutti gli esseri senzienti e addirittura (fu il caso di Kṣitigarbha) alle anime espianti facendo in modo che esse potessero godere dei risultati di quelle azioni positive. Lo scopo sarebbe stato quello di aiutare il loro progresso spirituale sulla via che conduce al Nirvāna. Nel Buddhismo Mahāyāna, il «trasferimento dei meriti» è uno dei più importanti capisaldi della fede; il cuore di quell’insegnamento di speranza ruota proprio attorno alle figure dei bodhisattva che rimandano la loro liberazione finale proprio perché hanno pronunciato il voto di salvare tutti gli esseri. E con quell’ultima espressione si intese principalmente tutto il genere umano, sia gli uomini che le donne. Il Bodhisattva Kṣitigarbha fu uno dei primi Esseri celesti ad aprire le porte del «paradiso» anche alle donne. Quest’ultimo argomento merita una qualche riflessione.

 

Nell’undicesimo capitolo del «Sūtra del voto del passato del bodhisattva Kṣitigarbha», la dea induista Prthivi [20] avrebbe giurato di utilizzare tutti i suoi poteri per proteggere e salvare tutti i devoti di quel bodhisattva» [21], sia uomini che donne. Ma, a parte il fatto che a quei tempi, per i teologi ortodossi del Buddhismo era quasi impensabile che una donna ( per di più laica) potesse accedere ad uno dei «paradisi» celesti dei Buddha [22], la cosa che più scandalizzò fu che quel bodhisattva potesse aver avuto, nel suo passato, ben due aspetti femminili: la ragazza indiana di buona famiglia e la giovane figlia di una donna, rinata nei regni infernali, che sarebbe riuscita a salvare la madre grazie ai suoi «meriti». Anzi, la storia del secondo bodhisattva in forma femminile divenne, per la lunghezza del racconto, di gran lunga una delle più importanti nel contesto dell’intero sūtra. Così, anche se, con il passare del tempo, il bodhisattva Kṣitigarbha apparve sempre in forma maschile, in origine sarebbe nato due volte di sesso maschile e due volte di sesso femminile. Oggi potremmo parlare di parità di genere… ma a quell’epoca la cosa suscitò un certo disagio. Sia come sia…uno dei primi studiosi occidentali a sottolineare, in tempi non sospetti, il legame tra il bodhisattva Kṣitigarbha e la dea Prthvi, insieme alla sua fluidità di genere, fu Marinus Willem De Visser (1875-1930). Secondo quel famoso sinologo e yamatologo tedesco, le due manifestazioni in aspetto femminile sarebbero servite ad «enfatizzare e a valorizzare il ruolo della donna nel Buddhismo cinese»[23].

 

Ma lasciamo da parte questo interessante argomento, di cui vorrei parlare in un prossimo articolo di «Gate», per tornare alle vicende di Kṣitigarbha che, nel VI e VII secolo della nostra era, proprio con la diffusione del suo culto, in Asia centrale, Cina ed in Tibet, iniziò ad essere raffigurato, non solo inserito nel gruppo degli «Otto grandi bodhisattva», ma anche come singola entità. In gruppo, Kṣitigarbha fu rappresentato nel Bada pusa mantuluojing, ossia nell’Astamahābodhisattva mandala sūtra («Mandala degli Otto grandi bodhisattva») [24] . In quel testo esoterico, supportato da elementi grafici e pittorici, vennero descritti gli Otto bodhisattva con le loro caratteristiche, le corrette posture del corpo, i loro «mantra» (sacre formule vocali, suoni magici), gli attributi, i gesti magici (mūdra), ed i loro colori. Kṣitigarbha fu rappresentato come un nobile giovane di color bianco, simbolo di purezza e di perfezione spirituale. E come tale fu raffigurato anche nei primi momenti della diffusione del suo culto in Asia Centrale e Cina. Un importante contributo all’aumento della sua popolarità, secondo Françoise Wang-Toutaine, fu poi dovuto al diffondersi in ambito devozionale del Sūtra dei dieci chakra di Kṣitigarbha (Dasheng daji Dizang shilun jing)[25], di cui abbiamo già accennato, che è considerato uno dei testi canonici fondamentali del culto di quel bodhisattva. In quel sūtra, Kṣitigarbha apparve come un vero e proprio salvatore apparso sulla terra nel periodo tra la morte del Buddha storico (Śākyamuni) e la venuta del Maitreya. Anzi, si affermò che avrebbe lui stesso scelto di apparire nel mondo proprio in quel particolare periodo storico, considerato dai buddhisti del « Mahāyāna» come l’epoca della «degenerazione della Legge» ( cin: Mofa; giap.: mappō) [26] per portare conforto e salvezza in un momento in cui la fede e la pratica del Buddhismo sembravano stessero indebolendosi sempre di più. Il Dasheng daji Dizang shilun jing dette precise istruzioni ai praticanti su come eliminare il karma negativo e su come compiere azioni meritorie, su come offrire doni alle immagini dei Buddha e su come venerarle. Ma l’enfasi maggiore di quel sacro testo fu posta sulla pratica della contemplazione per entrare nel samādhi[27]. A quello scopo furono riportate le dieci azioni da evitare nella pratica contemplativa. Fra queste, per citarne solo qualcuna, possiamo ricordare il non infrangere i precetti morali del Buddhismo (śīla); il non «nutrire visioni capovolte» (visioni perverse ed idee errate); il tenere sempre sotto controllo la propria «mente-scimmia» che durante la meditazione tende sempre a «saltare di qua e di là»; a ricercare il silenzio della mente, che in pratica voleva dire: parlare solo quando necessario e non in modo divisivo o con parole scortesi o aspre. Tutto questo avrebbe garantito sicuri «meriti» spirituali che avrebbero fatto evitare la rinascita nei gironi infernali. Ma, nel peggiore dei casi, Kṣitigarbha sarebbe intervenuto per salvare i dannati dalle pene degli inferi; infatti, in quel sūtra di nuovo si affermò che Kṣitigarbha, per compassione, avrebbe rinunciato a conseguire lo stato di Buddha per aiutare tutti gli esseri senzienti immersi nei sei destini del mondo delle rinascite.

 

Quel sūtra affermò anche che Kṣitigarbha sarebbe venuto da una località a sud del mitico monte Sumeru, che avrebbe avuto poteri miracolosi e che sarebbe stato in grado di assumere varie forme, tra cui quelle di Yama Rāja [28] un giudice infernale che si pensò potesse aiutare i defunti a raggiungere la salvezza. Grazie a quella rassicurante identificazione, che associò sempre più Kṣitigarbha al mondo sotterraneo dell’inferno, il culto del nostro bodhisattva crebbe enormemente, come testimoniano i numerosi rotoli manoscritti di quel sūtra, e di altri a lui dedicati, scoperti nelle grotte di Mogao scavate nelle montagne di sabbia nell’oasi di Dunhuang [29]. Fra quei testi merita senz’altro di essere ricordato un manoscritto, risalente ad un’epoca piuttosto tarda, conosciuto in Giappone come Tonkō hon bussetsu Jizō bosatsu kyō [30] che, dopo essersi dilungato sulle virtù e sui miracoli di Kṣitigarbha, affermò che quel bodhisattva sarebbe apparso ai suoi devoti negli ultimi istanti di vita per garantire una sicura rinascita nella «Terra Pura» d’Occidente del Buddha Amida [31]. Insieme a quei manoscritti nelle sperdute oasi di Dunhuan furono scoperti anche numerosi affreschi e pitture rupestri con raffigurazioni di Kṣitigarbha. In alcune fu rappresentato anche in modo singolare. Kṣitigarbha fu infatti l’unico bodhisattva ad apparire nelle sembianze di un monaco buddhista. Quella particolare raffigurazione sembrò trovare giustificazione teologica proprio in una frase del «Sūtra dei dieci chakra », che riportando una profezia del Buddha, testimoniò che «un giorno sarebbe apparso nel mondo un bodhisattva sotto le sembianze di monaco (śramana; cin.: shamen) [32]. Ma come sarebbe stato possibile distinguere quel Monaco divino da un comune bonzo? Per coloro che cercarono di raffigurarlo in dipinti e affreschi non fu cosa assolutamente facile. Così, come vedremo, per caratterizzarlo si ricorse all’aiuto di monili, gioielli, sacre gemme e addirittura di un cappuccio. Altre volte fu rappresentato come monaco con un «ūrnā» [33] cioè con uno dei trentadue segni distintivi della perfezione («dvātrimśsdvaralaksana») sulla fronte.

 

Kṣitigarbha raffigurato come Signore delle Sei Vie (Dunhuang, Grotta 19)British Museum, Public domain, via Wikimedia Commons

 

Ma veniamo brevemente ad analizzare alcune delle pitture raffiguranti Kṣitigarbha scoperte all’interno della « Grotta dei Mille Buddha» nell’oasi di Dunhuang. Le più antiche risalgono alla fine del VII secolo, mentre quelle più recenti sono del X secolo della nostra era. Quel periodo di tempo, che conobbe la più ampia espansione del culto del nostro bodhisattva, mostra molti cambiamenti iconografici che poi si riflessero in ulteriori forme rappresentative anche al di fuori di Dunhuang, come ad esempio nelle straordinarie sculture rupestri scoperte nel 1945 in alcune grotte nel distretto di Dazu nello regione dello Sichuan, o in quelle del complesso di Longmen, a dodici chilometri a sud dell’odierna città di Luoyang, nella provincia di Henan. Nelle primissime rappresentazioni, Kṣitigarbha fu dipinto alla stregua di un comune bodhisattva. Infatti, in un primo momento, apparve come un giovane nobile, con i capelli raccolti in una crocchia sul capo; altre volte fu adornato con dei gioielli che richiamavano le figure classiche dei bodhisattva. Altre volte ancora apparve seduto nella posizione di «lalitāsana» («posizione dell’agio regale») con una gamba pendente, mentre il piede dell’altra è sollevato da terra e piegato orizzontalmente sopra la coscia della prima gamba. In certe altre raffigurazioni fu rappresentato seduto in padmasana («posizione del loto») su un fiore di loto, con nella mano sinistra un fiore (o un germoglio) e con nella destra una campanella (a simboleggiare la coscienza sensoriale) o ferma nel gesto simbolico dell’Abayamudrā [34]. Talvolta Kṣitigarbha fu raffigurato con tra le mani il sacro gioiello Cintāmani [35], la gemma che si pensò avesse la capacità di esaudire tutti i desideri. Ma a parte tutte queste diverse raffigurazioni, Kṣitigarbha il più delle volte fu raffigurato come un monaco itinerante, scalzo, in piedi, oppure seduto in padmasana, con il capo rasato e nella mano destra un bastone da pellegrino (sansc.: Kakkhara; cin: xizhang; giap.: shakujō). In alcune tarde rappresentazioni, quel bastone fu provvisto nella parte superiore di un anello piuttosto grande, dal quale ne pendevano altri sei più piccoli a rappresentare i sei mondi dell’esistenza del samsāra. Qualche rara volta fu invece dipinto come un monaco viaggiatore con indosso una specie di saio con cappuccio e per questo fu chiamato «Beimao Dizang», ossia il «bodhisattva Kṣitigarbha incappucciato». Il cappuccio, in ambito giapponese, fu sostituito dai cappelli di paglia («kasa») e da qui il termine: «Kasa Jizō» della favola che abbiamo pubblicato.

 

Nel VI secolo dopo Cristo, nell’Impero cinese, il culto di Kṣitigarbha cominciò ad avere un sempre maggior seguito grazie anche al diffondersi di alcune pratiche legate alla divinazione e al Daoismo, come sembrerebbero dimostrare lo Zhancha shan’e yebao jing, ossia: le «Osservazioni sulla pratica della divinazione per stabilire il karma buono e quello cattivo» [36], ed il Dizang dadao xin quce fa, cioè: «Metodo di esorcismo basato sull’aspirazione di Dizang a ottenere il Risveglio» [37]. Ambedue le opere, redatte tra VI e il VII secolo della nostra era, cercarono di fondere il concetto del «Risveglio», cioè dell’Illuminazione del Buddhismo, con le tecniche divinatorie e quelle esorcistiche del Daoismo. La prima opera trattò della richiesta del Buddha a Kṣitigarbha di elaborare un metodo divinatorio di salvezza per tutti coloro che fossero vissuti nell’età finale del Dharma, cioè nel «mappō jidai»; la seconda, molto più interessante, descrisse invece alcune tecniche per ottenere la longevità e per prevenire le afflizioni e le malattie provocate dagli spiriti maligni («gui») e dai demoni («mo»). Inoltre si dettero istruzioni per realizzare talismani ed amuleti per aumentare la fede dei devoti e realizzare ogni loro desiderio. Argomento, quest’ultimo, assai caro alle tradizioni popolari del Daoismo. Il testo contiene anche incantesimi, formule magiche di guarigione («mantra», «dharani») e mistici glifi capaci di distruggere le forze negative. Nella magia del Daoismo, il culto di «Kṣitigarbha» si fuse così con pratiche divinatorie, esorcistiche e addirittura alchemiche. Una copia di questo sūtra, che sembra sia stato trasmesso in Giappone alla fine dell’epoca di Nara ( 710-774), era tra i tanti tesori scoperti nelle grotte di Dunhuang.

 

Simili arcane procedure legate al culto di Kṣitigarbha furono poi ben descritte anche in un altro manuale che conobbe anch’esso una straordinaria diffusione, il Dizang pusa yigui («Manuale dei riti di Dizang») [38], redatto tra il 716 ed il 735 d.C. e attribuito a Śubhakarasimha [39]. Quel testo, che divenne uno dei più importanti manuali di esoterismo buddhista dell’epoca Tang, fu introdotto anche in Giappone, alla fine dell’epoca Heian (794-1185), e conobbe un grande successo tra i praticanti dello Shingon. In quell’esoterico trattato, insieme a numerosi «darani» da utilizzare per il beneficio di tutti gli esseri viventi, sono custodite anche tre famose formule mantriche attribuite allo stesso Kṣitigarbha. Secondo la consuetudine del tempo sono tre formule diverse per lunghezza: una «lunga» (da zhou), una «media» (zhong zhu) ed infine, una «corta» (xia zhu, oppure xin zhong xin zhou). Per curiosità, riportiamo di seguito i tre magici «mantra»: 1) «An anmoto anmoer jubi sanmanduo suopohe»; 2) «An yanmanta zhe suopohe»; 3) «An shisi». In quello stesso sūtra si affermò anche che che se qualcuno avesse devotamente invocato il nome di «Kṣitigarbha» e avesse pronunciato con la giusta intonazione uno di quei «mantra» avrebbe ottenuto la cancellazione di tutte le colpe e la realizzazione di ogni desiderio [40]. Nel Dizan pusa yigui, il bodhisattva Kṣitigarbha fu raffigurato con una corona a cinque foglie sulla testa suddivisa in cinque sezioni con cinque punte. Su ognuna di quelle punte fu posta l’immagine di uno dei cinque Dhyāni Buddha [41].

 

Insieme al Dizang pusa yigui, conobbe una certa diffusione anche il Fo shuo Dizang pusa jing («Scritture sul Dizang») [42] un testo assai interessante, ma dalla difficile identificazione, perché con quel titolo furono talvolta chiamati anche il trattato sulla divinazione di Ksitigharba (di cui abbiamo già parlato) ed il Sūtra dei dieci chakra. Nelle Scritture sul Dizang vennero descritti minuziosamente gli inferni, governati da veri e propri giudici, e fu affrontata la questione della morte causata dallo scambio d’identità, cioè da un errore burocratico, un tema assai comune nella letteratura fantastica cinese[43]. Lo stesso tema compare anche in un prezioso manoscritto del IX secolo dopo Cristo, lo Huanhun ji (ossia: «Testimonianza di un’anima»)[44]. In quella scrittura vennero narrate le tristi vicende di un monaco di nome Daoming che, per una lettura sbagliata di un ideogramma del suo nome, finì all’inferno e fu sottoposto a numerosi supplizi. Finché in quel mondo sotterraneo non discese Kṣitigarbha. Il povero monaco non lo riconobbe, ma il nostro bodhisattva, che sapeva della sua disavventura, gli si fermò davanti e gli chiese di guardarlo attentamente. Il monaco finalmente lo riconobbe e cadde ai suoi piedi pregandolo di liberarlo da quella condizione di sofferenza. Kṣitigarbha lo salvò affermando che, da quel momento in poi, chiunque avesse visualizzato con forza la sua immagine avrebbe vinto l’inferno. Il monaco Daoming divenne un fedele servitore di Kṣitigarbha e come tale fu spesso raffigurato al suo fianco. In verità, in certe rappresentazioni ad accompagnare il nostro celeste bodhisattva comparve anche un cane. Secondo una leggenda quel cane sarebbe stata l’«anima» di sua madre rinata nel regno degli animali e salvata da Kṣitigarbha. Dopo quel provvidenziale salvataggio, «Diting», questo sarebbe stato il nome della madre del nostro bodhisattva, avrebbe deciso di diventare una sua compagna di viaggio e gli avrebbe fatto da guardia assumendo le sembianze di un cane.

 

Probabilmente anche la storia leggendaria della salvezza della madre dal mondo degli spiriti animali, servì a far apparire Kṣitigarbha come una vera e propria entità capace di traghettare i defunti dalle più infelici condizioni dell’aldilà alla salvezza celeste. Una caratteristica che sembrò trovare conferma anche nel cosiddetto Sūtra dei dieci Re dell’Inferno (Shiwang jing) [45] che amalgamò alcuni elementi buddhisti ad ancestrali credenze del Daoismo, alla fede popolare e al culto degli antenati. Fra l’altro il titolo di quella scrittura (Shiwang jing) non si riferisce ad un singolo sūtra ma ad una serie di manoscritti scoperti nelle oasi di Dunhuang ed elencati da Stephen Teiser, nell’appendice n.10 di un suo libro [46]. Lo Shiwang jing, così come da noi comunemente conosciuto, è in pratica un insieme di scritture apocrife cinesi, fra l’altro mai canonizzate nel corpus delle scritture buddhiste (Taishō 1«Taishō»: sta per: «Taishō shinshū daizōkyō», Il Canone buddhista cinese compilato a Tōkyō dalla « Taishō Issaikyō kankōkai tra il 1924 ed il 1935. Sono 85 volumi.). Tra i manoscritti di Dunhuang sopravvivono tre versioni dello Shiwang jing: una lunga, una media ed una breve. Il Teiser, nella sua opera, prese in esame la versione più lunga, intitolata Yu xiu shiwang sheng qi jing [47] che fu copiata più volte e trasmessa dagli stessi monaci che vivevano nell’oasi. Quel testo inizia con le istruzioni da recitare ritualmente in onore del Buddha Amithāba e prosegue, con alcuni inni devozionali ed una apertura narrativa che termina con il nome del presunto autore del testo, un monaco di nome Zangchuan, che probabilmente visse nel tempio di Dashengci, a Chengdu [48]. La data di composizione di quel testo è sconosciuta, ma il primo manoscritto ancora esistente, scoperto a Dunhuang, fu copiato nel 908 d.C. Nella versione lunga dello Shiwang jing, i «Dieci Re dell’Inferno», con tutte le loro demoniache corti, sembrano subire l’influenza del bodhisattva Kṣitigarbha, che appare come un vero e propria supremo determinatore del destino delle anime. Inoltre, insieme ai nomi e alle descrizioni dei dieci Re infernali, viene per la prima volta menzionata l’esistenza di sei manifestazioni di Dizang (Kṣitigarbha), una per ogni condizione di esistenza nel samśara. Quei sei Dizang avranno una grande importanza nel Buddhismo giapponese. Nello stesso sūtra si affermò, fra l’altro, che il Buddha Śhakyāmuni avrebbe annunciato al Re Yama (descritto come il quinto Re dell’oltretomba), che in un tempo futuro avrebbe lasciata la condizione infernale per diventare un Essere illuminato conosciuto con il nome di Samantabhadra [49].

 

Concludendo questa prima parte del nostro articolo possiamo senz’altro affermare che nel corso del VI e VII secolo della nostra era, prima in Cina e poi in Giappone, un importante contributo alla diffusione del culto di Kṣitigarbha fu probabilmente dovuto alla convinzione di vivere nella terza fase del Dharma [50], ossia nell’epoca della «dissoluzione della Legge», durante la quale le dottrine del Buddha sarebbero state destinate a decadere. In quel momento di profonda crisi e pessimismo, nacquero e si svilupparono le scuole della «Pura Terra» [51]che si proposero come via di salvezza per tutti gli esseri senzienti grazie alla fiducia nella compassione del Buddha «Amithāba» «Amida»), all’abbandono al suo potere salvifico e alla recita continua del suo santo nome. Il cosiddetto «Buddhismo della Pura Terra», oltre che sulla devozione per il Buddha «Amida» si basò anche sulla fede nell’infinita compassione del bodhisattva Avalokiteśvara [52] e, più tardi, anche in quella di Kṣitigarbha che avrebbe liberato dalle sofferenze della vita e dai tormenti della condizione infernale con la benevolenza e la pietà filiale.

 

 

NOTE

 

[1] Kṣitigarbha, dai termini sanscriti: «ksiti», ossia: «terra» e «garbha», letteralmente. : «ventre», o «utero». «Kṣitigarbha» significherebbe così: : «Matrice della Terra», «Deposito/grembo della Terra»; «Seno materno della Terra»; tib.: Sa’i snying-po; cin.: Dizang; giapp.: Jizō. Altro nome in sanscrito: «Ksāharana». Alcuni studiosi giapponesi hanno associato la figura di Kṣitigarbha a quella della dea indiana Prthivi (la madre Terra). Invece la parola bodhisattva indica colui che segue il sentiero che conduce all’Illuminazione e fa il voto di liberare tutti gli esseri dalle catene del samsāra. È il modello ideale del Buddhismo Mahāyāna. Questi sono i Suoi «mantra»: «Om ha ha ha vismaye svāhā» (in sanscrito); «Om Fa la ma me na niso ha» (in cinese); «On kakaka bisanmaesi sowaka» (in giapponese).

[2] I Sei destini del samsāra, ossia le sei condizioni dell’esistenza (sansc.: sadjagati, cin.: liudao, giap.: rokudō): i regni dell’inferno, degli spiriti affamati (preta), degli animali, degli asura, degli uomini e degli esseri celesti (deva).

[3] «Maitreya», «Colui che è amore», oppure: «L’Onorato Compassionevole»; nome del bodhisattva destinato ad essere il prossimo Buddha nel nostro mondo, quando la dottrina («Dhārma») insegnata e trasmessa dal Buddha storico «Śhākyamuni» sarà stata quasi completamente dimenticata. Secondo la tradizione attualmente dimorerebbe a «Tushita», il quarto cielo del «Mondo del desiderio», in attesa di conseguire il Risveglio supremo per manifestarsi sulla terra.

[4] I sūtra del Buddhismo Mahāyāna» elencarono circa duecento bodhisattva, ma si trattò quasi sempre di personaggi non troppo ben specificati e citati solo di sfuggita. Fecero eccezione due gruppi di bodhisattva: i primi furono una famiglia di cinque esseri celesti associati ai cinque Buddha trascendentali del Sambhogakāya ( il «Corpo di retribuzione», uno dei tre corpi del Buddha); gli altri appartennero al gruppo detto degli «Otto grandi» ( sans.: Mahāsattva; cin.: mohe saduo; giap.: makasatsu) che si ritenne potessero agire nel mondo del « samsāra» senza esserne coinvolti. I nomi di questi «Otto grandi» esseri celesti compaiono nel Mahāviutpatti, il «Grande compendio lessicografico» buddhista della lingua sanscrita e tibetana, redatto in Tibet tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo dopo Cristo. Ecco i loro nomi: Ksitgarbha, Manjjuśrī, Vajrapāni, Avalokiteśvara, Maitreya, Sarvanīvaranavis kambhin, Ākaśhagarbha e Samantabhadra. (vedi: De Visser Marinus Willem., «The Bodhisattva Ti-Tsang (Jizo) in China and Japan», Ost-asiatische Zeitschrift, Berlino, 1914,pp. 6-9.

[5] Bhaisajyaguru; il termine sanscrito «bhaisajya», significa: «cura», «rimedio», «medicina». « Guru» significa: « maestro», «insegnante», «guida». Quando quel venerabile maestro era ancora un bodhisattva, prima di raggiungere l’Illuminazione e la condizione di Buddha, avrebbe pronunciato dodici voti nei quali promise di curare ogni tipo di malattia malattie e di condurre tutte le persone al «Nirvāna».

[6] Bhaisajyaguru sūtra ( «Sūtra del Maestro della Medicina»). Quel sūtra, che fra l’altro riporta la promessa della rinascita nella Pura Terra del Buddha Amida, si trova in «Taishō», 14,450.

[7] Śantideva fu un maestro indiano del Mādhyamika e un mistico buddhista. Figlio di Re, rinuncio al regno per fare il suo ingresso nel complesso monastico di Nālandā. Sembra che alla fine della sua esistenza abbia vissuto da yogi errante. Vedi: Zhiru, The Making of a Savior Bodhisattva: Dizang in Medieval China, University of Hawai’i Press, Honolulu, 2007, p.9 e pp. 229-230.

[8] Cfr.: The Bodhicaryāvatāra of Śantideva with the Commentary Panjikā of Prajnākaramati, P.L. Vaidya, Buddhist Sanskrit Texts, n.12, Dharhanga Bihar, The Mithila Insititute, 1988; Bendall Cecil, Rouse W.H.D., Śiksā samuccaya: A Compendium of Buddhist Doctrine, 1922; ristampa: Motilal Banarsidassi, New Dehli, 1988.

[9] Il Dasheng daji Dizang shilun jing (sta in: Taishō 13, 410; ma anche in: Taishō 13, 411, 13.721a-777c.). La prima versione in cinese sarebbe stata opera di un anonimo traduttore durante la dinastia dei Liang del Nord ( 397- 439 d. Cr.). La seconda traduzione sarebbe stata fatta nel VII secolo sotto la direzione di Xuanzang ( in giap.: Genjō), celebre pellegrino e traduttore cinese morto nel 664 della nostra era. I due testi differiscono nella disposizione dei capitoli anche se il contenuto è essenzialmente lo stesso. Una edizione dell’epoca Tang ( 618-907) di quel sūtra fu tradotto, intorno al 790 dopo Cristo, in giapponese durante l’epoca di Nara ( 710-794). Quell’opera, dal titolo Daihōkō jūrin kyō (Taishō, 13, 681) è conservata nel Museo Nazionale di Nara, in Giappone.  Per i brani simili del Śiksamuccaya con il testo cinese del «Sūtra dei Dieci Chakra del bodhisattva Kṣitigarbha», vedi: Zhiru, The Making of a Savior Bodhisattva: Dizang in Medieval China, op. cit., pp. 229-230. «Chakra», nella descrizione del «corpo sottile» della mistica induista, «chakra» (lett.: «ruota», «disco», «cerchio» o «vortice»), sarebbe un centro psichico, responsabile di specifiche funzioni fisiologiche e spirituali. Nel Buddhismo, la parola «chakra» (cin.: lun, o: mai lun; giap.: rinmbō, o rin), si riferisce invece agli insegnamenti del Buddha che vincono gli impedimenti terreni e le illusioni. Il termine «Dharma chakra», o «Ruota della Legge», è spesso usato per indicare tali insegnamenti.

[10] Il Dizang pusa benyuan jing (sans. : Ksitigarbha purvaprānidhāna sūtra; sta in: Taishō 412, 13,777c-790a) è un sūtra che sarebbe stato tradotto da Śiksananda (in cin.: Shichanantuo; 652?-710 d.C.). Śiksananda fu un monaco del Khotan; a lui si deve anche la traduzione del Lankāvatāra sūtra tra il 698 ed il 700 d. Cr., a Loyang. Vedi: Zhiru, The Making of a Savior Bodhisattva: Dizang in Medieval China, op. cit., 2007, pag. 8 e pag.260. Questo sutra, tradotto in giapponese tra il 738 ed il 747, ebbe straordinaria diffusione durante l’epoca Heian (794-1185).

[11] Nel corso di questa nostra trattazione, per definire quella quiddità, useremo, in modo del tutto non corretto, alcune espressioni come «anima» o «spirito». In realtà dovremmo parlare della più intima e profonda essenza personale di un essere vivente che, trasmigrando di vita in vita, rinasce più volte per infine giungere all’Illuminazione e al «Nirvāna». Talvolta, in Occidente, il famoso insegnamento buddhista della «mancanza di un sé» è stato interpretato come «mancanza di un’anima», e utilizzato a sproposito per avvallare la visione di un Buddhismo ateo e talvolta nichilista. Cosa assolutamente falsa e fuorviante. E’ senz’altro vero che Il Buddha ha sempre negato l’esistenza di un’anima assoluta, intrinsecamente sostanziale ed identificabile, come ha negato l’esistenza di un sé o ego che abbiano gli stessi attributi. Però, la psicologia buddhista ( specialmente nel Mahāyāna cinese), non ha mai negato l’esistenza di possibili entità relative, relazionali, mutevoli, viventi e convenzionali, che per utilità pratica potrebbero essere chiamate «sé», «spirito» o addirittura «anima».

[12] Nel tredicesimo e ultimo capitolo vengono elencati i ventotto benefici che si otterrebbero venerando Kṣitigarbha e a leggere, ascoltare o copiare quel sūtra.

[13] Vedi: Calzolari Silvio, Il Principio del male nel Buddhismo: storie di tentazioni e illusioni d’inferni, Luni Editrice/ICOO, Milano, 2020, cap.11: «Cosmologia buddhista, tra dei, dragoni ed entità astrali», specialmente: pp.125-127.

[14] Indra. Divinità del pantheon induista conosciuta nel Buddhismo con il nome di Śakra, o Sakka («Potente»; in cin.: Dishitian; in giap.: Taishakuten). Il suo regno sarebbe sul monte Sumeru, immaginato come il centro polare del mondo fisico, attorno al quale ruotano il sole e la luna. Il Paradiso Trāyastrimśa è posto nell’alto del primo dei cieli a diretto contatto con l’umanità. In Cina, durante e dopo l’epoca della dinastia Tang (618-907 d. Cr.), si pensò che le «anime» dei devoti di Kṣitigarbha potessero rinascere nel Paradiso della «Pura Terra» d’Occidente del Buddha Amida, cioè: nel «Sukhāvatī. Vedi: Calzolari Silvio, Il Principio del male nel Buddhismo, cit., pp.124-127. Calzolari Silvio, L’Aldilà buddhista: il Paradiso del Buddha Amitabha, in: Calzolari S., Mordechay L. e altri, Paradiso, Giardino di Speranza, Borla, Roma, 2012, pp. 59-93.

[15] Taishō, 412, 13,778b

[16] Taishō, 412, 13,779a

[17] Taishō, 412, 13, 780c

[18] Taishō, 412, 13, 781a- 781b.

[19] Le scritture buddhiste descrivono vari tipi di inferno. L’inferno Avīchi (cin.: Wujian diyu, oppure: Abi diyu; giap.: Muken jigoku), sarebbe l’ottavo, il più profondo ed il peggiore degli inferni cosiddetti «caldi». La sua denominazione trasse origine dal fatto che si pensò che coloro che vi avessero dimorato avrebbe patito una sofferenza senza tregua. Va però ricordato che per il Buddhismo la condizione infernale non sarebbe eterna. Vedi: Calzolari Silvio, Il principio del male nel Buddhismo, cit., pp.281-284.

[20] Prthvi è la dea induista della «Terra»; cin.: Jijin; oppure: Jiten; giap.: Kenrō.

[21] Ecco quel giuramento: «… Se i devoti costruiranno luoghi di culto per il santo Kṣitigarbha e lì collocheranno le sue immagini, vi bruceranno incenso e lo venereranno con preghiere e offerte.. godranno dei seguenti benefici: le loro terre saranno fertili, le loro famiglie godranno di serenità e armonia, i loro defunti rinasceranno nei cieli, la durata della loro vita e dei propri famigliari sarà lunga, le loro preghiere riceveranno una risposta positiva, non saranno mai danneggiati da calamità, inondazioni e incendi,, non avranno risultati infruttuosi, i loro brutti sogni avranno fine, quando andranno in viaggio saranno sempre protetti, il loro peregrinare terreno sarà sempre protetto da sante condizioni».

[22] Per esempio, il Sukhāvatīvyūha (lett.: Sūtra degli ornamenti della Terra beata; II/III secolo della nostra era), nella sua forma più estesa e completa (Amitābhavyūhanāma Mahāyāna sūtra; cin.: Wuliangshoujing; giap.: Dai Muryōju kyō; in Taishō, 360) affermò che le donne non avrebbero potuto rinascere nella «Pura Terra» del Buddha Amithāba (Sukhāvatī) se non dopo aver subito, post-mortem, una celeste trasformazione in uomini. Vedi: Calzolari Silvio, L’Aldilà buddhista, cit. pp. 59-92; in particolare: pp. 82-86 .

[23] Vedi: De Visser, Marinus Willem, The Bodhisattva Ti Tsang (Jizō) in China and Japan, cit., 1914, pp.7-9.

[24] L’Astamahābodhisattva sūtra (sta in: Taishō n. 1167, 20, 675a- 676a), è stato attribuito ad Amoghavajira (705-774; cin.: Bukong Jingang; giap.: Fukūkongō), un famoso praticante del Vajrayāna. Amoghavajra fu maestro di Huiguo (giap.: Keika ajari) che accolse (804) ed insegnò a Kūkai (Kōbō Daishi; 774- 835) che trasmise la successione esoterica (Shingon) in Giappone.

[25] Françoise Wang-Toutain, «Une peinture de Dunhuang conservée à la Biblioteque Nationale de France», in «Arts Asiatiques», n.49, Paris, 1994, pag. 54. Françoise Wang-Toutain, Le Bodhisattva Kṣitigarbha en Chine du V eu XII Siecle, Presses de l’Ecole Française d’Extreme-Orient, Paris, 1988. Vedi questo nostro articolo: nota n.7.

[26] Il Buddhismo considera la storia ciclica. La morte di un Buddha ed il suo ingresso nel Nirvāna segnano la fine di un’era e l’inizio di un ciclo successivo. L’inizio di quella nuova era segnerà il ritorno di un Buddha che darà l’avvio ad un nuovo ciclo di predicazione. Secondo le dottrine cosmologiche buddhiste (teoria del mofa xixiang (giap.: mappō shisō) ogni ciclo sarebbe diviso in tre fasi. La prima fu denominata «zhengfa» (giap.: «shobō»); la seconda: «xiangfa» (giap.: «zobō»), mentre la terza fu chiamata «mofa» (giap.: «mappō»). Nella prima era, con la dottrina del Buddhismo forte e chiara, l’Illuminazione sarebbe stata possibile; nel secondo periodo l’Illuminazione sarebbe più difficile da raggiungere perché la dottrina non sarebbe più autentica e genuina; nel terzo periodo, che sarebbe corrisposto all’era della degenerazione della Legge, gli esseri senzienti, anche compiendo atti meritori, avrebbero avuto estrema difficoltà a conseguire l’Illuminazione.

[27] Samādhi; in cin.: ding, o: sanmei; in giap.: zanmai oppure: sanmai.Raccoglimento/assorbimento meditativo. Termine generico per designare uno stato di meditazione profonda ottenuto grazie alla stabilizzazione della mente.

[28] Yama Rāja; il «Signore della morte», In cin. Yanmo Wang; giap.: Enma-ō; Yama è il «Signore della morte» dell’India vedica e di quella induista. Fu descritto come il supremo giudice che attende i defunti nell’Inferno, che soppesa le loro buone o cattive azioni e decide il loro destino. Vedi: Calzolari Silvio, Il principio del male nel Buddhismo, cit., pp. 181-189 e pp.285-295.

[29] Dunhuang, in giap.: Tonkō; oasi lungo la Via della Seta, in quella che oggi è la prefettura di Jiuquan, nella provincia del Gansu (Cina nord-occidentale).

[30] Tonkō hon bussetsu Jizō bosatsu kyō; sta in: Taishō, 85, 1455.

[31] Vedi nota n. 14 e nota n.22. Il Buddha Amida («Luce Infinita») risiederebbe nella «Pura Terra delle perfetta beatitudine» (Sukhāvatī). La leggenda narra che quando era ancora un bodhisattva avrebbe pronunciato quarantotto giuramenti, nei quali si impegnava a creare quel paradiso una volta ottenuta l’Illuminazione. Nel diciottesimo giuramento promise di far rinascere nel Sukhāvatī tutti gli esseri senzienti che avessero riposto in lui le loro speranze di salvezza.

[32] Dasheng daji Dizang shilun jing, sta in: Taishō, 13,410, 681c14 e682a21. Ma anche in: Taishō XIII,411, 721c20;722b5 e 727b21; Vedi anche Françoise Wang- Toutain, Une peinture du Dunhuan conservèe à la Biblioteque Nationale de France, cit., p. 54.

[33] «Ūrnā». Ciuffo di peli arrotolati tra le sopracciglia.

[34] L’«Abayamūdra» è il gesto del coraggio e della vittoria sulla paura». In quel gesto la mano destra è aperta davanti a sé, con le dita unite, compreso il pollice. La mano destra va alzata all’altezza della spalla mentre l’avambraccio è piegato a formare un angolo retto. La mano sinistra rimane invece rilassata al centro della regione pelvica ed è rivolta verso l’alto. Il termine mudrā significa: «gesto», «sigillo», o «segno».

[35] Cintāmani; cin.: Rui ; giap.: Nyoi hōju. Una vera e propria «pietra filosofale» che, secondo le leggende, avrebbe avuto il potere di conferire il potere di realizzare ogni desiderio. Quella mitica gemma simboleggiava anche la virtù ed il potere del Buddha, dei bodhisattva e delle sacre scritture.

[36] Lo Zhancha shan’e yebao jing (in giap.: Sensatsu zenaku gyōhō kyō), sta in: Taishō n. 839,17, 901c-910c) è stato attribuito a Bodhidipa (?-?).

[37] Il Dizang dadao xin quce fa (in giap.: Bussetsu Jizō bosatsu darani kyō) sta in: Taishō, n. 1159A,20. 652c-655a. Quel testo è stato tradotto integralmente in: Zhiru, The Making of Savior Bodhisattva, cit., pp.241-252.

[38] Dizang pusa yigui ( sans.: Kṣitigarbha bodhisattva sadana; in giap.: Jizō bosatsu giki), sta in: Taishō, n.1158, 20,652a- c.. Vedi: Manabe Kōsai, Jizō bosatsu no kenkyū, Sanmitsudō shoten, Kyōtō, 1960, pag.114. Hoshino Toshio, «Jizō bosatsu giki kō», Toyōzan gakuhō, n.7, 1961, pp. 103-115.

[39] Śubhakarasimha, 637-735; in cin. : Shupajia luo; in giap.: Zenmui Sanzō. Maestro indiano e traduttore di Tantra in cinese.

[40] Zhiru, The Making of a Savior Bodhisattva, cit., pp. 97-100.

[41] Dhyāni Buddha; i «Cinque Tathāgata», ossia i «Cinque grandi Buddha» che altro non sarebbero che i cinque Buddha della Saggezza, solitamente identificati con: Vairochana, Akśobya, Ratnasambhava, Amitābha e Amoghasiddhi. Gli studiosi hanno recentemente sottolineato che il termine Dhyani Buddha non compare nei testi buddhisti originali, ma quella nomenclatura continua comunemente ad essere usata.

[42] Fo shuo Dizang pusa jing, sta in: Taishō n. 2909, 85.1455 b-c.

[43] Zhiru, The Making of a Savior Bodhisattva, cit., pp.101-104; e: François Wang Toutain, «Une peinture de Dun huang conservée à la Biblioteque Nationale de France», cit., pp.53-56).

[44] «Huanhun ji», sta in: Stein Collection of Dunhuang Manuscripts of the British Librery of London, n. 3092; Dunhuang baozang (DHBZ), n. 25, 667-668.

[45] «Shiwang jing» ( in giap.: «Hosshin innen jūokyō»). Su quel sūtra, si veda: Teiser F. Stephen, The Scripture of the Ten Kings and the Making of Purgatory in Medieval Chinese Buddhism, University of Hawai’i Press, Honolulu, 1994; Teiser F. Stephen, The Growth of Purgatory, sta in: Religion and Society in Tang and Song China,  a cura di Buckley Ebrey Patricia e Gregory N.Peter, University of Hawai’i Press, Honolulu, 1993, pp.115-145.

[46] Teiser F. Stephen, The Scripture of the Ten Kings and the Making of Purgatory in Medieval Chinese Buddhism, cit., 1994, pp.1-15 e appendice n.10.

[47] Lo Yu xiu shiwang sheng qi jing sta in: X0021. Dove «X» si riferisce a « Xuzang jing», in: «Shinsan dai Nippon zokuzōkyō», ed. a cura di: Kawamura Kōshō, Nishi Giyū e Tamaki Kōshirō, Kokusho Kankōkai, Tōkyō, 1975-1979. Edizione precedente originaria: Dai Nihon zoku Zōkyō, Zōkyō Shoin, Kyōtō, 1905-1912.

[48] Vedi: Teiser F.Stephen, The Scripture of Ten Kings and the Making of Purgatory in Medieval Chinese Buddhism, cit., pp.69-71.

[49] Samantabhadra, ossia: «Universalmente buono»; tib. : Kun-tu bzang-po; cin.: Puxian; giap.: Fugen. Samantabadhra è il bodhisattva protettore del Sūtra del Loto e una delle quattro grandi Entità celesti che circondano il Mahāvairochana (cin.: Dari rulai; giap.: Dainichi nyorai), nel «Garbhadhātu mandara» (il «Mandala del Mondo Matrice»). Nello Shingon, ove simboleggia la concentrazione meditativa, viene considerato «causa» della saggezza simile allo specchio e porta una spada adamantina. Talvolta è raffigurato seduto sopra un elefante a sei zanne e con in mano la gemma che esaudisce tutti i desideri (sans. : Cintamani; giap. : Ho*ju).

[50] Vedi nota n. 22 .

[51] «Pura Terra»; in cin.: Jintu zong, in giap.: Jōdo.

[52] Avalokiteśvara; cin: Guanyin; giap.: Kannon, oppure: Kanzeon. È il «Signore che guarda dall’alto», il «Signore del mondo». Avalokiteśvara, come bodhisattva che incarna la compassione (sans.: karunā; cin.: cibei; giap.: jihi) è senza alcun dubbio il bodhisattva più popolare del Mahāyāna. Avalokiteśvara, argomento di molti sūtra e leggende, è stato rappresentato sia in forma maschile che femminile.

 

Idee

  • Orientalista e storico delle religioni, Silvio Calzolari insegna Storia delle Religioni di Cina e Giappone presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze e la Facoltà Teologica dell'Italia Centrale. È Segretario generale di FOB (Freedom of Belief), organizzazione internazionale che si occupa di libertà religiosa, di espressione e di culto. Tra le sue monografie, «Alcune considerazioni sul concetto di Mononoke, in Giappone durante l’epoca Heian» (1980), «Il Dio Incatenato. Storie di Santi e di Immortali giapponesi nel Giappone dell’epoca Heian 794-1185 (1984), «Arhat, figure celesti del Buddhismo» (2018), «Il Principio del Male nel Buddhismo, Storie di tentazioni e illusioni d’inferni» (2020) e «Bere il tè per nutrire la vita. Il Tè, spiritualità e arte medica nell’antica Cina e Giappone, con la traduzione del Kissa Yōjōki del bonzo Eisai, 1141-1215) (in press).

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