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Svalutare il positivo e incorniciare il negativo

Queste righe intendono essere un’occasione di riflessione e di pratica circa la pericolosità di considerare reali solo i problemi e le difficoltà e di attribuire poco valore ai momenti di gioia e di bellezza che la vita generosamente ci offre. L’abitudine alla negatività è talmente diffusa da risultare ‘normale’, se non addirittura una necessaria espressione dell’esercizio dello ‘spirito critico’ tanto considerato ai giorni nostri. Presi come siamo ad aspettare il prossimo problema e a non mettere radici nel momento presente, perdiamo l’incontro con il nostro mondo interiore, ossia con quella saggezza luminosa che il Buddha ci invita a considerare come la nostra vera natura.

 

In poche parole, potremmo dire che noi siamo vittime di una frequente distorsione ottica, a causa della quale impartiamo realtà e valore ai nostri problemi, crucci e malesseri, mentre diamo per scontati momenti di pace e di benessere. Sembra un paradosso, eppure, questa tendenza ad incorniciare il negativo è talmente frequente, abituale e condivisa, che spesso non ne siamo assolutamente consapevoli. Davanti ad un cruccio, davanti ad un malessere noi ci fermiamo, mentre in presenza di un’esperienza positiva spesso ‘scivoliamo via’, e questo perché inconsciamente consideriamo la cosa negativa come, ovviamente, più importante. Questo nostro essere ipnotizzati da tutto quello che è problematico o spiacevole, a tutto scapito invece di ciò che è bello, buono e positivo, equivale a un remare contro noi stessi. Anzi, per essere ancor più chiari, possiamo dire che questo modo di essere equivale a fare del male a noi stessi. Naturalmente è fondamentale accorgersi del fatto che compiamo questo grave errore. Dall’esterno ci verranno certamente problemi, magari anche difficoltà obiettive, e se non siamo interessati alla crescita interiore non ci verrà neppure in mente quanto sia importante fermarsi ad osservare come accogliamo questi problemi. Attribuire la colpa della nostra scontentezza esclusivamente a quello che ci capita è un po’ ingenuo. È ovvio che i problemi hanno un loro peso, ma non è altrettanto ovvio quanto sia importante la nostra risposta a ciò che accade. È infatti in questo come che può manifestarsi quell’atteggiamento interiore del compulsivo remare contro noi stessi o, al contrario, l’intenzione di cura verso noi stessi. Infatti, grazie al lavoro interiore, possiamo arrivare a scoprire che dentro di noi vi sono qualità positive capaci di accogliere con serenità il flusso cangiante delle nostre esperienze. In virtù della pratica possiamo felicemente scoprire che le qualità negative, ostruttive, nascono spesso dall’egocentrismo che compulsivamente afferra o respinge ciò che si manifesta. Al contrario le qualità positive, quelle profondamente sane, nascono da uno spazio interiore, sempre presente in noi, capace di accogliere con saggezza e compassione l’intera vita.

 

La nostra pratica, quindi, sarà quella di adoperarci per connetterci il più spesso possibile con la parte sana che abita in noi e fare del nostro meglio per non cadere nella dolorosa abitudine di potenziare comportamenti negativi, mentali, verbali e fisici. A tale proposito è fondamentale riuscire a portare la consapevolezza nei momenti in cui stiamo potenziando qualcosa di negativo e in cui attribuiamo l’etichetta “di sapore amaro” all’intera esperienza in corso. Questo significa addestrarsi, con una certa sistematicità, al fine di vedere e rivedere questa nostra predisposizione ad essere più sensibili verso ciò che in noi e fuori di noi è negativo, piuttosto che verso ciò che è positivo. E direi che, più pratichiamo, più ci rendiamo conto della pesantezza di questo scompenso e della vera e propria distorsione ottica che esso rappresenta. Ritengo che ognuno di noi debba riflettere su questa abitudine alla negatività, anche perché l’abitudine a dare la priorità a ciò che non va bene è molto forte. Ai nostri giorni occuparsi del negativo è considerata una cosa seria, mentre occuparsi del positivo sembra essere una cosa inutile, se non addirittura folle!

 

Attenzione, perché parlare di questa “malattia della mente” è piuttosto facile, ma mettere seriamente in pratica l’intenzione di liberarsi dal fardello della nostra negatività è tutt’altro che cosa facile e richiede una profonda motivazione. Allo stesso tempo è necessario coltivare attivamente la fiducia nel fatto che in noi esiste una parte profondamente sana nella quale risiedono pazienza, gentilezza e saggezza e che queste virtù sono la nostra vera essenza. Con la pratica potremmo partire proprio da questa importante considerazione che punta il dito sul fatto che noi non siamo quel mucchio di giudizi, lamentele e pensieri negativi che ci ossessionano, ma siamo, piuttosto, consapevolezza e chiarezza. Infatti, tutto ciò che è abitudine alla sofferenza, proprio perché non rispecchia la nostra natura più profonda, può felicemente essere cambiato e abbandonato. Le testimonianze dei meditanti, raccolte in tanti anni di insegnamento, confermano come sia possibile sciogliere i dolorosi nodi che ci legano al mondo immaginario che costruiamo quando ci identifichiamo con la proliferazione emotivo concettuale. L’attaccamento, l’avversione e la confusione scorrono come un fiume in piena nella mente non lavorata dalla meditazione. Ma con il lavoro interiore possiamo gradualmente imparare a ridurre la potenza di questo flusso. E il trucco è sempre lo stesso: praticare con le piccole cose. Infatti, se prendiamo in considerazione le piccole negatività scopriremo un mondo di possibilità di pace che nemmeno immaginavamo. Come il Buddha ci insegna, l’essenza della mente è chiara e luminosa, mentre attaccamento, avversione e ignoranza sono definiti inquinanti passeggeri. Alle volte molto vischiosi, molto oscuranti, ed è per questo che portare la pratica nelle piccole difficoltà può essere un vero e proprio allenamento capace di condurci al porto sicuro della scoperta del nostro spazio interiore.

 

Lo scetticismo e la pratica

La nostra motivazione potrebbe scontrarsi con il nostro scetticismo, con quel pensiero negativo che tende a considerare i cammini sapienziali come portatori di un falso ottimismo e ritiene reale e giusto il pessimismo, mettendo così in dubbio le nostre risorse di saggezza e compassione. Non a caso a volte capita di vedere una persona serena che dice cose allineate con la sua capacità di vedere il positivo e che è circondata da sguardi spenti, scettici, sogghignanti che in sostanza dicono: “Cos’è mai questo roseo ottimismo? Non è evidente che le cose serie sono quelle negative?”.

Per contrastare questo nostro scetticismo potremmo decidere di accogliere ‘seriamente’ ogni nostro impulso gentile e positivo. Questo ci porterà progressivamente a rendere più salda e più forte la nostra attenzione verso il buono presente e a relativizzare la forza della negatività. Potremmo anche solo semplicemente domandarci se sia logico turbarci per un saluto un po’ freddo e non rallegrarsi per un saluto cordiale.

Potremmo scoprire, con nostro stupore, che nella nostra mente rimane di più il ricordo di un unico saluto un po’ sgarbato, rispetto al ricordo di molti saluti gentili che ci vengono rivolti.

A tale proposito mi viene anche da suggerire la pratica di coltivare intenzionalmente la gioia. Questa ci porta ad essere naturalmente più aperti al positivo e meno ossessionati dal negativo. Ad esempio, la pratica della gioia, nel caso del saluto, ci educa a soffermarci intenzionalmente sul saluto cordiale, ad assaporarne il calore e a sentire crescere dentro di noi il desiderio di fare circolare tale gentilezza e serenità. La gioia può essere allenata molte volte durante le nostre giornate: possiamo rivolgerci ad accogliere con gratitudine un bel paesaggio naturale, oppure possiamo soffermarci e gioire del fatto che abbiamo ritrovato, per puro caso, qualcosa che cercavamo da tempo. Oppure potremmo semplicemente rallegrarci per il fatto che non ci duole un ginocchio… Lo scetticismo potrebbe a questo punto riprendere il sopravvento e dirci che queste gioie appena descritte sono troppo semplici perché valga la pena coltivarle. Non è così. Vale sempre ‘la pena’ di essere felici! E aggiungo che un’altra bella pratica per dare valore al positivo consiste proprio nell’apprezzare ogni apparizione della consapevolezza. Mi si perdoni il gioco di parole, ma io sono profondamente convinto che essere “consapevoli del dono della consapevolezza” sia una delle fonti primarie di gioia.

 

È infatti la consapevolezza che, come una lente di ingrandimento, ci fa vedere con maggiore chiarezza la follia di scegliere il negativo a svantaggio del positivo e che ci consente di sentire la sofferenza che deriva dall’abitudine di ‘incorniciare il negativo’. Allo stesso tempo la consapevolezza ci aiuta a far nascere e crescere la nostra capacità di apprezzamento e dunque, di gioia. Infatti, se noi attraversiamo un bel parco in una giornata fresca e luminosa e, grazie alla consapevolezza, riusciamo ad accogliere tutta la positività di questa esperienza, ci accorgeremo che questa nostra passeggiata nella natura è due volte più bella. È bella perché obiettivamente lo è, ed è bella perché noi ne siamo consapevoli. Invito a fare un esperimento per verificare quanto la consapevolezza della gioia renda questa stessa gioia un’esperienza trasformante.

Allo stesso tempo invito ad accogliere uno scoraggiamento con piena consapevolezza. L’effetto sarà che l’energia dello scoraggiamento diventerà meno forte e, di conseguenza, molto meno negativa. E questo accadrà naturalmente perché, proprio in virtù della presenza mentale, ci scopriremo meno inclini ad alimentare quel rimuginare intorno allo scoraggiamento che rende l’esperienza dolorosa ancora più pesante e reale. Può darsi che all’inizio non ci troveremo a nostro agio con questa pratica. Allora ci sarà utile ricordare che il Buddha spesso ci invita a vedere e rivedere i solchi delle nostre abitudini mentali. La consapevolezza rivolta al momento presente, ovvero l’attenzione non giudicante e senza preferenze, va coltivata, con pazienza, molte e molte volte. Da notare che la pratica che stiamo descrivendo è esattamente il contrario di quello che normalmente facciamo. A tutti è evidente che tendiamo a considerare normale se, in presenza di uno stato di scoraggiamento, noi lo potenziamo proliferandoci sopra.

La pratica ci aiuta a vedere che da una parte c’è questa cosa pesante che è lo scoraggiamento, dall’altra c’è una qualità positiva per eccellenza, che è la consapevolezza. Quando parte anche solo qualche secondo di consapevolezza è come una lampadina che si accende. E più ricorriamo alla consapevolezza e più ci diventa chiaro il nostro contributo alla generazione della sofferenza mentale. Va detto che una parte di noi si aspetta che la pratica sia una specie di bacchetta magica, capace di fare dissolvere velocemente ogni nuvola. E quando questo non si verifica, ecco che si riaffaccia lo scetticismo. Eppure basterebbe riflettere sul fatto che abbiamo dedicato, e dedichiamo, tantissimo tempo ad incorniciare il negativo e che quindi dobbiamo, per riuscire a creare un nuovo solco, impegnarci, il più assiduamente possibile, a valorizzare il positivo.

 

Il non attaccamento e la pace

Stiamo parlando di un processo lungo che è molto aiutato dalla coltivazione di due importanti qualità: il non attaccamento e la pace. Invito a considerare con fiducia il rapporto che esiste tra queste due qualità. Infatti, non è possibile avere un po’ di vera pace senza un po’ di vero non attaccamento e, allo stesso tempo, non può esserci non attaccamento senza che ci sia pace. Inutile sottolineare il fatto che la virtù del non attaccamento non ha niente a che fare con la freddezza e con l’indifferenza. A tale proposito ricordiamo come, in ambito cristiano, Meister Eckhart descriva la persona gioiosa come colei che si trova nel più grande distacco. E arriva anche a dire che il distacco è preferibile a tutto perché purifica l’anima, rischiara la coscienza, infiamma il cuore. Queste parole mi pare che portino chiarezza anche sull’equivoco di equiparare il non attaccamento ad uno stato neutro, mentre, come abbiamo visto, il non attaccamento vero, anche quando è poco, ha sempre a che fare con la gioia, con la pace e con la libertà. Aiuta pensare che uno stato di non attaccamento anche solo iniziale, non è concepibile se siamo, allo stesso tempo, smaniosi, insoddisfatti e capricciosi. Quindi è evidente che sperimentare un po’ di pace interiore è già manifestazione di non attaccamento.

Il Dalai Lama afferma ripetutamente che tutti gli esseri viventi cercano la felicità e non vogliono l’infelicità. Il problema però è che troppo spesso speriamo di trovare la felicità nell’attaccamento piuttosto che nell’equanimità e nella pace. Ricordiamoci dunque come uno stato di non attaccamento, anche solo iniziale, riduce ed elimina tutto ciò che è irrequietezza, insoddisfazione, smaniosità. Per fare un esempio semplice, ma non banale, riflettiamo sul fatto che se non siamo attaccati a una giornata di sole, ci verrà naturale essere ‘in pace’ con il cattivo tempo.

Chiaramente questo non significa essere indifferenti, ma piuttosto essere equanimi. L’indifferenza per nessun motivo deve essere confusa con il non attaccamento. Quest’ultimo ci deve piuttosto evocare la perla dell’equanimità. Per spiegare la differenza tra equanimità e attaccamento ricorro spesso a questo esempio. Se rispetto a qualcosa noi diciamo mi piace, questa è equanimità. Ma se diciamo mi piace, la voglio afferrare, allora questo è attaccamento. Rispetto al bel tempo è normale che piaccia ma quando appare l’attaccamento il bel tempo lo vogliamo proprio. E fino a quando saremo attaccati alla nostra preferenza per il bel tempo sarà impossibile anche solo concepire di essere in pace con il cattivo tempo!

 

Anche in questo semplice esempio possiamo vedere con chiarezza come l’attaccamento è solo una faccia della medaglia e che l’altra faccia è l’avversione. Allo stesso tempo possiamo capire come, sia l’attaccamento, sia l’avversione, causino sofferenza nella nostra vita. Grazie alla pratica vediamo e rivediamo che ciò che rende ancora più dolorosa un’esperienza spiacevole è l’avversione. La cosa dolorosa certamente ci fa soffrire, ma ciò che aumenta considerevolmente la nostra sofferenza è il continuare ad attaccarci all’idea che debbano accadere solo cose piacevoli e alimentare l’avversione per lo spiacevole che è accaduto. Come mi è capitato di scrivere nel mio libro Il silenzio tra due onde:

 

In generale, attaccamento è afferrare e stringere da una parte, ma anche essere afferrati, stretti, tenuti: che si tratti di oggetti piacevoli, spiacevoli e neutri. È importante cogliere questo aspetto primordiale, misterioso dell’attaccamento…

Se vogliamo procedere nella conoscenza-comprensione dell’attaccamento è necessario percorrere la strada della consapevolezza e via via prendere a percepire nella maniera più nuda possibile, la contrazione-costrizione dell’attaccamento1Corrado Pensa, Il silenzio tra due onde, Ubiliber, Roma 2023, p. 78..

 

Da notare che se ci siamo tanto, troppo, abituati all’attaccamento, la contrazione non la sentiamo, ma se cominciamo a mettere l’attaccamento in discussione, se cominciamo a praticare regolarmente, piano piano sentiamo come l’attaccamento sia una contrazione forte. Una chiara esperienza di non pace.

Attaccamento, avversione e confusione sono le cause-radici di tutta la sofferenza autoinflitta. Sì, abbiamo letto bene, noi ci infliggiamo sofferenza, malgrado il nostro naturale desiderio di felicità. Ed è per questo che è molto importante ‘toccare con mano’ l’effetto dell’attaccamento. A tal fine notiamo un paio di cose semplici ma che tendono a sfuggirci: 1) l’attaccamento, proprio perché è una contrazione, è sofferenza; 2) Il non attaccamento, invece, è distensione, pace.

 

Ne La tranquilla passione faccio questa osservazione:

 

…all’inizio è facile che il lavoro interiore sia soltanto una fascinazione. È uno stadio che va naturalmente superato, non al fine di sfociare in un’abitudine, ma, piuttosto, acciocché il lavoro interiore possa maturare in qualcosa di più vitale, che potremmo chiamare, appunto, una tranquilla passione: cioè una ricerca e un desiderio via via più forti di verità e di bene. Si tratta di una passione tranquilla perché, paradossalmente, è una passione che accresce il non attaccamento. E più non attaccamento significa più spazio interiore.

Se voglio diventare un buon artigiano dovrò sviluppare il gusto, la passione di lavorare con le mani. E se desidero apprendere in modo non superficiale, ho necessità di una passione per lo studio e l’investigazione. Parimenti, se intendo crescere e cambiare, ho bisogno di una passione per il lavoro interiore2Corrado Pensa, La tranquilla Passione, Astrolabio Ubaldini, Roma 1994, pp. 11-12..

 

Il mio invito è quello di coltivare il cammino interiore con sincero interesse e di osservare gli effetti, su di noi e sulle persone a noi vicine, sia della negatività sia della positività. Cercando di incontrare l’attaccamento, le sue cause e le sue conseguenze senza aver timore di riconoscerlo nelle piccole cose, nei tanti momenti di non pace che incontriamo nella nostra quotidianità. Il Buddha ci invita ad osservare tutte le condizioni presenti in maniera ardente, risoluta e chiaramente comprendente. La passione per la pratica è molto importante e cresce a mano a mano che comprendiamo come il cammino sia in grado di aiutarci ad entrare in contatto con lo spazio

luminoso e benevolo che è dentro di noi. A quel punto ci renderemo conto della grande fortuna che abbiamo avuto ad incontrare il Dharma e la meditazione e ci rallegreremo con noi stessi per non aver abbandonato il cammino. Per non esserci fatti catturare dalla negatività nei momenti difficili della pratica, e per essere stati capaci di perseverare nel lavoro più bello che esista: il lavoro interiore.

 

Idee

  • Considerato tra i più autorevoli insegnanti di meditazione buddhista in Italia, è socio fondatore e insegnante guida dell’A.Me.Co (Associazione per la Meditazione di Consapevolezza) dal 1987. Per diversi anni ha tenuto il corso di Religioni e Filosofie dell’India presso l’università La Sapienza di Roma e parallelamente ha mantenuto la sua attività come psicoterapeuta junghiano. Ha pubblicato numerosi testi sul buddhismo e sulla pratica della meditazione di consapevolezza (vipassanā).

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