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Immagine del fumo di mirra. Dall'esercizio «Arte del Fumo» di un’ouverture | Pier Paolo Zimmermann, per gentile concessione

Sahara. Il vuoto come teatro

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L’Unione Buddhista Italiana ha recentemente siglato un accordo con la Fondazione CRT Centro Ricerche teatrali / Teatro dell’Arte.  Grazie ai fondi 8xmille, è stato infatti possibile mettere in moto una sinergia fra l’Agenda Cultura e Triennale Milano Teatro, inaugurando la stagione 2023-2024 di questa collaborazione con una residenza teatrale di Claudia Castellucci e della sua Compagnia Mòra. Il progetto prevede momenti di «ouverture» diretti dall’artista, con il coinvolgimento di partecipanti esterni, provenienti anche da Centri di Dharma associati UBI.

 

 

 

«Cercare il deserto per danzare, è cercare quella condizione in cui la mente è soggetta a tutto ciò che la popola. Il deserto come condizione, e non come paesaggio, riduce ogni possibilità costruttiva alla sola fantasia mentale. L’estrema povertà delle esperienze concrete e delle relazioni, obbliga a stare in compagnia soltanto con i prodotti della mente»

«La grande povertà di materie e di relazioni nel deserto spinge la danza a creare soltanto con ciò che si ha: se stessi, come unico – primo e ultimo – strumento»

Claudia Castellucci

 

 

 

C’è un che di strategico, di ludico addirittura: un’assenza che è tutta una possibilità creativa nel deserto messo in scena da Claudia Castellucci e dalla sua Compagnia Mòra. Dall’assenza l’opportunità immaginativa; dai soli mezzi a disposizione (mente e corpo dell’attore) l’origine della messa in scena. Inaugurato lo scorso 9 gennaio, con la sua prima settimana di residenza presso gli spazi di Triennale Milano Teatro, Sahara è il progetto teatrale frutto di una co-produzione fra Unione Buddhista Italiana e Fondazione CRT Centro Ricerche Teatrali / Teatro dell’Arte.

 

Approfondimento di uno studio avviato dall’artista nel 2016 «verso una danza che sappia cogliere e circoscrivere momenti di immediata unità tra la musica e le immagini della propria mente», Claudia Castellucci definisce un’intenzione che è programmatica e presente nel progetto in tutte le sue fasi di svolgimento, fino al debutto previsto nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi (ottobre 2024) e al Teatro dell’Arte di Milano (2025).

 

Drammaturga, coreografa e didatta, Leone d’argento alla Biennale danza 2020, Claudia Castellucci ci racconta il proprio percorso come una storia già rivolta «all’altrove» rispetto al sistema teatrale, simile per certi versi alla condizione dell’asceta nel deserto. C’è, infatti, nella sua opera la riununcia alla parola, con il pensiero che diventa fisico e l’insegnamento inteso già come atto creativo. La scuola stessa è per Claudia un’opera, in cui si svolge – si fa –  una pratica molto materica di pensiero, che conduce alla realizzazione di una danza, definita quale prodotto della mente.

 

Sahara è così un processo teatrale, in cui il metodo sembra essere l’acquisizione di una piena consapevolezza della vita: a cominciare dal respiro, dall’attenzione al proprio nome, al passo che calca il suolo, alla relazione con l’altro, senza mai smarrire il proprio centro. Il risultato è un’esperienza che si traduce in un corposo insieme di seminari (ouverture) attivati in un contesto dove le musiche di Stefano Bartolini diventano parte integrante della scena, spazio – avvertito fin da subito come proiezione della mente – in cui l’artista definisce una serie di ginnastiche, coreografie, esercizi vocali, sessioni di disegno dal vero, impartiti dapprima alla Compagnia, e successivamente aperti agli esterni, attori, non sempre necessariamente, professionisti.

 

Immagine: Nicolò Gialain, per gentile concessione

 

È un ruolo, a ben vedere, maieutico quello di Claudia Castellucci, autrice fra l’altro di una vera e propria scuola di teatro in forma di libro: un «manuale empirico» – così lo definisce (Setta, Quodilibet), in cui guida gli «scolari» attraverso cinquantanove giorni; diciotto materie; trecentovantasei esercizi; ventinove discorsi. Una summa del suo pensiero enunciato in uno stile ai limiti dell’iniziatico, idealmente rivolto a giovani carichi di «un’ansia costruttiva», pronti a immergersi nella prassi teatrale.

 

Fare la parola, incorporare la finzione del pensiero: non c’è messa in scena più reale del teatro, che vede il vuoto come fonte ed epifania di accadimenti. La danza non può darsi che in questa assenza, in questo Sahara stabilito dall’artista, che proietta sulla scena il teatro mentale dell’individuo.

 

È interessante, qui, segnalare un recente volume pubblicato in Italia per Adelphi, Un mondo senza confini, in cui il giornalista William Atkins racconta di suoi viaggi in diversi deserti del mondo, ricordandoci che tali ecosistemi rappresentano un terzo delle terre emerse del nostro Pianeta. È un viaggio fisico e mentale sulle tracce di passati esploratori, quali furono nell’Ottocento i viaggiatori francesi in cerca – proprio nel Sahara – di un désert absolu, uno spazio sconfinato e intimo, che vide non meno protagonisti esploratori spirituali, sia pure di un’altra epoca, come i Padri del Deserto, immersi in una condizione di rinuncia al mondo e rigorosa ascesi.

 

Similmente rigorso si dispiega agli occhi il Sahara di Claudia Castellucci. Un paesaggio che spinge al massimo grado un linguaggio che rinuncia al superfluo della prosa e dell’estetica fine a se stessa, in cerca di una danza altrettanto «absolue».

 

Non è un caso che fra i riferimenti condivisi dall’artista nei suoi appunti compaia la figura di Robert Morris, padre dell’Anti-Form, avanguardia che a fine anni Sessanta portò il linguaggio a un estremo elementare,  connotando l’oggetto nella sua nuda realtà, contro ogni velleità artistica.

 

Così appare la danza che prende forma in Sahara, ricerca di una semplicità radicale, che il deserto – citando l’artista – «turba al massimo grado», conducendo a raffigurazioni fisico-mentali sullo sfondo di un tempo di spettacolo. Una meditazione compiuta sulla scena, che osserva la finzione e, valicandola, realizza il proprio oggetto.

 

Immagine: Luyda Burchenkova, per gentile concessione

 

Appunti da una residenza con Claudia Castellucci

di Francesco Puleo, Centro Milarepa Torino

 

Siamo un gruppo eterogeneo a partecipare a questa formazione, sia per età che per esperienze. Non so chi siano gli altri e quali esperienze abbiano, il tempo non ci concederà di conoscerci. Per quanto mi riguarda, sono un attore teatrale, e nel panorama degli ultimi decenni, questo vuol dire spesso entrare in contatto con metodi di ricerca che nascono e si collegano al teatro, ma che rivelano, più in generale, un interesse e un lavoro sul sé dell’essere umano. Credo sia proprio in relazione a questo interesse che possa avvenire «l’aggancio» tra il buddhismo e quello che viene definito teatro di ricerca.

 

Ancora prima di divenire buddhista, nei primi anni Novanta, mentre frequentavo il DAMS a Bologna, pensando genericamente di voler «fare teatro», avevo conosciuto come spettatore la Raffaello Sanzio e la sua radicale ricerca teatrale. Ora entro nel teatro della Triennale e ad accoglierci c’è proprio Claudia Castellucci, fondatrice, con suo fratello Romeo, di quella compagnia. Ci chiede di entrare direttamente nel lavoro (senza presentazioni, senza spiegazioni), direttamente immersi nella «pratica». Non mi stupisco: dopo anni di buddhismo e di teatro di ricerca sono abituato e capisco perfettamente quello che accade. Non c’è bisogno di parole, né di teorie: conta solo esserci.

 

Claudia ci accoglie e ci chiede di camminare in cerchio al ritmo di una musica, tutti insieme, uno dietro l’altro. Ci chiede di arrestarci quando lo riteniamo e di sentire il modo in cui il nostro corpo è attratto, o dal centro dello spazio o dalla periferia. Quando passeremo di fianco a qualcuno che si è fermato, potremo guardarlo negli occhi, finché qualcun altro non interromperà questo contatto. Un lavoro semplice, di consapevolezza.

 

Mi affiorano alla mente ricordi di pratiche simili, in cui mi sono imbattuto in passato: la camminata di consapevolezza della tradizione Theravada, la «schiera» creata dal regista e formatore Gabriele Vacis nel teatro di ricerca. La consapevolezza: questa è sicuramente la parola chiave. Osservare cosa accade; cosa accade al nostro corpo, cosa accade a noi stessi, in relazione a una situazione e a un compito dato. Danza, in essenza, è questo… Solo al termine di questo esercizio, Claudia ci saluta e ci rivolge alcune osservazioni. Perché non c’è un metodo, ma un interesse a conoscere, a conoscere se stessi, a vedere cosa facciamo in una data condizione e, solo dopo, a rifletterci. Non è importante la competenza tecnica (forse tra di noi ci saranno ballerini e attori, forse no!). Il vero focus è essere presenti: tutti gli esseri umani hanno queste possibilità e capacità.

 

Successivamente ci viene chiesto di disegnare, con carta e carboncino, il fumo emanato da un incenso. Anche in questo caso, l’interesse non è rivolto alla capacità tecnica, non è necessario essere pittori, bensì calarsi semplicemente nell’osservazione del fumo e riprodurlo. Anche qui, solo dopo l’attività, Claudia ci indica cosa, secondo lei, raccontano i nostri disegni, in relazione all’essere presenti aldilà della volontà di rappresentazione e a un approccio meccanico e non consapevole.

 

Nei giorni seguenti abbiamo intrapreso altri semplici esercizi di movimento, di interazione con la musica o con messaggi proiettati su un video, di ascolto e declamazione di testi poetici, sempre all’interno della camminata in cerchio del primo giorno.

 

Anche in questi casi, il focus non era la volontà di rappresentazione, quanto piuttosto l’attenzione, la presenza, l’interazione. Il senso non nasceva da una volontà coreografica, ma direttamente dall’accadere delle azioni, in relazione al ritmo e allo spazio.

 

Un lavoro che riporta all’essenza dello «stare» dell’essere umano. Stare in uno spazio, in un ritmo, in un’attenzione, in una dimensione: quella del deserto, tema dello spettacolo su cui stanno lavorando Claudia e i suoi performers. In questa dimensione, senza teorizzazioni, fatta piuttosto di riflessioni postume, si può ritrovare il collegamento fra danza, teatro, buddhismo, arte contemporanea.

 

Sono stati quattro giorni utili a sperimentare o «ri-sperimentare» un’essenza, a osservare, a contatto con una semplicità voluta e dopo decenni di pratica teatrale e buddhista, quali sovrastrutture si sono create in me, che non hanno a che fare con l’essenza.

 

Da qui, le nostre strade si separeranno. Per il teatro, invece, inizierà una ricerca sulle possibilità di rappresentazione, a partire dalla consapevolezza. Ma per questo ci vorrà altro tempo… e, come dice Claudia al termine di ogni esercizio, «ecc. ecc»…

 

Claudia Castellucci

Drammaturga, coreografa e didatta, Claudia Castellucci ha fondato con Romeo Castellucci e con Chiara e Paolo Guidi la Societas Raffaello Sanzio, compagnia teatrale attiva dal 1981 al 2006, anno in cui si trasforma in Societas, dando luogo a sviluppi distinti per ognuno degli artisti fondatori.  Dagli anni della sua formazione scolastica a indirizzo artistico (Liceo Artistico, Sezione Architettonica e Accademia di Belle Arti a Bologna Sezione di Pittura), ha continuato a produrre arte. Nel 1989 fonda la Scuola teatrica della discesa, un insieme di giovani che si incontra regolarmente per cinque anni unendo alla ginnastica una pratica filosofica. Negli anni successivi lo studio si allarga al movimento ritmico e nel 2003 fonda la Stoa, una scuola che dura cinque anni, lungo i quali si realizzano i Balli, danze improntate a un’interpretazione del movimento che considerano il tempo come dimensione principale. Nel 2015 fonda la Scuola Mòra, che si costituisce in Compagnia nel 2019, con la realizzazione del ballo Verso la specie, danza che prende a modello la metrica della poesia greca arcaica; la meta-danza All’inizio della città di Roma, sulle prime transazioni sociali di un’umanità alle prese con la vita di massa, e la danza Il trattamento delle onde, basata sul suono delle campane. Segue Fisica dell’aspra comunione, una danza costruita su Le Catalogue d’Oiseaux di Olivier Messiaen, che vede l’esecuzione per pianoforte dal vivo ad opera di Matteo Ramon Arevalos. In occasione della Biennale di Venezia 2020, Claudia Castellucci ha ricevuto il riconoscimento del Leone d’Argento per la Sezione Danza diretta da Marie Chouinard. Nel 2021, La nuova Abitudine, danza basata sul canto Znamenny, un antico canto liturgico ortodosso, di impronta greca, che si fonde con la tradizione rurale della musica russa.

Scrive diversi testi di drammaturgia, di arte scolastica e di coreografia. Tra questi: Uovo di bocca (Bollati Boringhieri 2000), Setta Scuola di tecnica drammatica (Quodlibet 2015), e Bollettini della Danza (Edizioni Sete 2019).

 

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