Al centro di ogni dipendenza c’è un vuoto basato sulla paura. Il tossicodipendente teme e detesta il presente: si rivolge febbrilmente solo verso la prossima volta, al momento in cui il suo cervello, pervaso dalla sua droga preferita, avrà una breve sensazione di se stesso libero dal peso del passato e dalla paura del futuro, i due elementi che rendono il presente intollerabile. Anche molti di noi assomigliano ai tossicodipendenti negli inutili sforzi che facciamo per riempire il buco nero spirituale, il vuoto al centro in cui abbiamo perso il contatto con la nostra anima, il nostro spirito, con quelle fonti di significato e valore che non siano contingenti o fugaci.
Ripugnanti e inquietanti, gli spiriti famelici popolano la ruota dell’esistenza della tradizione buddhista indiana e tibetana e sono metafora del potere distruttivo di un desiderio inappagabile. Collo scarno, arti emaciati e pancia gonfia, sono il ritratto di una sofferenza dilaniante. Sono trasfigurati da un dolore radicale che ha reso manifesto a livello esteriore il loro dissidio interiore. Il loro ventre pronunciato racconta il vuoto che li abita: nulla li ha nutriti, nulla li ha saziati e nulla ha potuto salvarli da una cattiva nascita, costringendoli a rivivere lo strazio di un’infinita brama di senso e completezza. Gli spiriti famelici, però, non sono entità ectoplasmatiche o di fantasia: esistono in carne e ossa. E sono più vicini di quanto ci si immagini. Gabor Maté, nel suo decennio di lavoro in uno dei quartieri più degradati di Vancouver, il Downtown Eastside, li ha incontrati, li ha conosciuti e ha cercato di individuare le cause di quel vuoto profondo che li ha portati a perdersi in processi autodistruttivi. Fianco a fianco dei tossicodipendenti, sinceramente coinvolto dalle loro storie ambientate in veri e propri reami di dolore, questo medico e conferenziere dallo sguardo dolce e malinconico ha colto l’occasione per comprendere qualcosa di rivoluzionario: dietro ogni forma di dipendenza si cela lo stesso meccanismo. C’è un vuoto d’amore, e quel vuoto scava tunnel abissali nel cuore che a sua volta si trincera, pronto per un conflitto interiore che nega ogni forma di speranza. In Occidente si parla di “guerra alla droga” ma, come ben riscontra Maté, si tratta di un’espressione fuorviante, perché la guerra si fa alle persone e qui invece, al cospetto di queste esistenze interrotte, l’unica cosa che serve è uno sguardo compassionevole capace di aprire il cuore e di abbracciare un’umanità tormentata. Nel regno degli spiriti famelici accompagna allora il lettore in un viaggio spirituale, emotivo e intellettuale alle origini della dipendenza. È il libro testimonianza di quegli anni trascorsi sul filo del rasoio, tra la tragedia e la grazia, è memoir ma anche saggio di neuroscienze, oggi pietra miliare per chiunque voglia parlare di dipendenze da una prospettiva salvifica.