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Meditazione

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Sguardi contemporanei sulla meditazione

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Di recente, varie forme di meditazione ispirate alle tradizioni orientali hanno fatto breccia in diversi settori delle nostre società attraverso il cuneo del movimento della Mindfulness e affini. Innanzitutto, l’attenzione delle scienze e della ricerca si è rivolta agli aspetti salutari legati alla sua pratica, indagati sulla scia dei concetti di benessere e prosocialità, inscritti nel paradigma socio-culturale statunitense del XXI secolo. Da una tale operazione hanno preso l’abbrivio reazioni e critiche al modo in cui la Mindfulness è stata piegata a logiche ben distanti dai principi etici e dai riferimenti soteriologici buddhisti da cui trae origine. È interessante però che al contempo si sia  anche dischiuso un più ampio discorso sul fenomeno «meditazione», nonché una graduale problematizzazione della sua natura e delle forme in cui si articola. Un simile ampliamento della ricerca dà nuovo vigore allo studio accademico delle tradizioni contemplative, invitandolo a rispondere all’attuale curiosità sulle prassi che in quest’ambito sono racchiuse e tramandate, e contemporaneamente innesca un nuovo interesse della ricerca per le implicazioni filosofiche e spirituali più profondamente sottese alle pratiche meditative. 

 

Dalla Mindfulness ai Contemplative Studies

Una branca come quella della neurofenomenologia, per esempio, con l’intento di studiare la natura della coscienza e della soggettività, nonché la relazione mente-corpo, si muove all’intersezione tra scienze cognitive sperimentali e fenomenologia, viste come modalità di indagine complementari e reciprocamente arricchenti. In questo approccio lo studio scientifico dei processi cognitivi, da una parte, e i modi di indagare e analizzare l’esperienza in prima persona, dall’altra, si influenzano vicendevolmente. Pertanto le tradizioni contemplative, che sono incardinate proprio sulla formazione nella meditazione e sull’analisi filosofica della mente, si rivelano essere una miniera inestimabile di soggetti praticanti, in grado di descrivere la propria esperienza in modo appropriato, di competenze e di letteratura fenomenologica – tutti elementi preziosi, che potrebbero svolgere un ruolo attivo e creativo nell’indagine scientifica della coscienza. 

Il più ampio discorso sulla meditazione che oggi sta prendendo piede trova una sua legittima collocazione in quello che può essere considerato come un vero e proprio campo di studi, sebbene tuttora emergente e fluido, quello dei Contemplative Studies. Questi studi considerano le pratiche contemplative da un punto di vista interdisciplinare e interculturale, e includono le neuroscienze e la psicologia. Non si limitano però a queste discipline, ma anzi prevedono un’esperienza della meditazione in prima persona e un dialogo tanto appassionato quanto rigoroso con il buddhismo e le altre tradizioni meditative. Si tratta di un campo disciplinare vivace e cangiante, dove già si può assistere a significative trasformazioni nelle direttrici della ricerca. Lo studioso di psicologia contemplativa William Van Gordon, infatti, in un recente articolo scritto in collaborazione con altri studiosi, rileva che dal 2005 in questo settore si è potuto assistere a una crescita di interesse per gli aspetti etici e socio-emozionali delle pratiche contemplative, mentre a partire dal 2013 si è osservato un’ulteriore svolta, che ha spostato l’interesse verso pratiche legate alla qualità della saggezza – basti pensare, ad esempio, alle meditazioni su temi come impermanenza, interdipendenza, insostanzialità del sé e così via.

 

Il tunnel dell’io

Non è ancora chiaro quanto simili interessi siano in grado di attecchire nell’ambito della ricerca e in quello della pratica effettiva nella società laica, ma è esattamente questo il solco in cui vorremmo inserire queste nostre riflessioni che riguardano in particolare il potenziale, oggi, del lavoro contemplativo sul versante della «saggezza». Nella tradizione buddhista per saggezza si intende la capacità di cogliere la natura ultima del sé e degli altri fenomeni, ossia, la vacuità di esistenza intrinseca. Le nostre considerazioni scaturiscono da una domanda: esiste un modo per parlare di questa qualità nel mondo attuale? Ed è possibile farlo senza adottare linguaggi e presupposti di carattere metafisico o religioso, ma al contempo mantenendo il più possibile intatto il nucleo spirituale e trasformativo di questa qualità interiore, così come quello delle pratiche contemplative deputate a coltivarla?

Nel libro Il tunnel dell’io, il celebre filosofo della mente contemporaneo Thomas Metzinger, senza fare alcuna allusione alla tradizione buddhista, offre una descrizione del concetto di sé, così come del meccanismo della percezione e della cognizione, che appare assai affine a quella enunciata dal Buddha quasi duemilacinquecento anni fa, seppure adottando un linguaggio differente: quello delle neuroscienze e, più in generale, delle moderne scienze cognitive. Attraverso evidenze sperimentali e rigorose argomentazioni filosofiche, l’autore mostra come l’intero orizzonte della nostra esperienza sia popolato da rappresentazioni o, se si preferisce, modelli creati dal nostro cervello. In questo senso, tutto ciò che chiamiamo «realtà» sarebbe una costruzione cognitiva che non ha la funzione di rispecchiare in modo oggettivo il mondo «là fuori» – o quello «qui dentro» – ma quella di farci perseguire gli scopi dettati dalla nostra specifica evoluzione biologica (un’idea che, dal punto di vista buddhista, richiama il ruolo del karma e delle tendenze mentali stratificatesi in tempi immemorabili). 

Di tutti i modelli cognitivi che sono all’opera nel costruire la «realtà virtuale» in cui siamo immersi, quello più insidioso, benché cruciale per la sopravvivenza, è proprio il modello del sé. Come spiega l’autore, si tratta infatti di un modello «trasparente»: proprio come una lente, una volta che lo «indossiamo» ce ne scordiamo; dimentichiamo che si tratta di un modello con cui, in altre parole, ci identifichiamo in tutto e per tutto. Tale modello ricorda molto da vicino la nozione di ātman, così come è considerata nelle forme di decostruzione che caratterizzano la filosofia buddhista e molte delle sue pratiche, a partire dalla meditazione analitica. Il modello del sé è il centro del nostro mondo cognitivo; fa convergere i vari input sensoriali in un unico punto di vista, quello da cui abbiamo l’impressione di osservare il mondo, e si pone anche come quartier generale da cui provengono le nostre decisioni e le nostre azioni. Insomma: il modello del sé è proprio ciò che ci dà l’impressione di esistere come soggetti unitari e indipendenti, ma si tratta di un’illusione. È un modello funzionale ai nostri scopi biologici e sociali, che però non rispecchia la realtà. 

Da questo punto di vista l’io è un «tunnel», appunto, ricavato attraverso l’estrema riduzione della complessità del reale, dell’ambiente che ci circonda e dei nostri stessi processi interni: questi hanno una natura caotica, molteplice e radicalmente aperta al cambiamento e non hanno nulla dell’immediato senso di unità e indipendenza, o di linearità temporale, che caratterizza l’esperienza della soggettività. Immedesimati in questo modello, ci «appropriamo» – per fare eco all’idea degli upādāna-skandha, gli «aggregati di appropriazione» attraverso i quali, secondo il buddhismo, si articola la nostra esistenza samsarica – dei processi cognitivi e delle azioni prodotte da un numero vastissimo di processi interdipendenti, innescati dalle continue relazioni tra il nostro organismo e l’ambiente. 

In uno dei suoi ultimi lavori, il noto studioso di buddhismo Jay L. Garfield descrive il modo in cui questo senso del sé, che dà unità all’esperienza, è anche percepito come primordiale: come antecedente, indipendente e, anzi, più evidente e accessibile rispetto al mondo stesso. Nelle parole dello studioso, «anche se il mondo attorno a noi sparisse, potremmo rimanere come un centro di soggettività. Consideriamo il nostro sé come la base della nostra capacità di fare esperienza del mondo, non come una parte di quel mondo». E ciò crea una drastica frattura tra soggetto e oggetto, in quanto noi siamo il soggetto e il resto gode di un altro status.

 

Saggezza 2.0

Ispirandoci a tale prospettiva, e provando a formularla in un linguaggio moderno, potremmo leggere la qualità della saggezza promossa dal cammino buddhista come la capacità metacognitiva di riconoscere i propri modelli cognitivi come modelli, a partire da quello del sé. Al di là di come esistano l’essere umano, la realtà o l’universo considerati nel loro essere in sé – un livello metafisico sul quale il Buddha stesso, interrogato, rispose con il suo «nobile silenzio» –, è chiaro che ogni fenomeno, interno o esterno, così come appare nell’orizzonte dell’esperienza è vuoto di oggettività o sostanzialità, in quanto è co-prodotto dalla relazione tra l’ambiente e le nostre facoltà. È una costruzione cognitiva, in altre parole, e questo è vero tanto dal punto di vista buddhista quanto da quello delle moderne scienze cognitive. 

Il cammino di liberazione indicato dal Buddha comincia proprio dal primo albeggiare di tale intuizione e termina quando questa sia stata così pienamente assimilata da dissolvere completamente il processo di immedesimazione con il modello del sé. In altri termini, bisogna aver pienamente compreso, non solo intellettualmente ma in termini concreti e costanti, che il sé, proprio come gli altri fenomeni con cui interagiamo, non è altro che un modello, utile convenzionalmente ma privo di oggettività o sostanzialità. E questo messaggio si fa particolarmente urgente proprio oggi, in una società afflitta dalla «patologia dell’individuazione» e dai disturbi che vi sono associati, dove l’ecosistema di cui siamo parte fa sentire la sua voce, bussando alla porta del nostro «ritiro narcisistico nell’ego, nella psicologia» in cui ci siamo atomizzati. L’uomo di oggi, «homo psychologicus», vive in cattività nei meandri di una morbosa interiorità, occupato perennemente nell’implosione di una dimensione interiore sorda al resto del mondo, dove l’unica eco udibile è quella del proprio ego.

 

La meditazione come strumento per sviluppare la metacognizione del modello del sé

Molte delle pratiche più importanti della tradizione buddhista potrebbero dunque essere inquadrate proprio come esercizi in cui il riconoscimento metacognitivo (e critico) del modello del sé (o di qualunque altro) come modello rappresenta al contempo il punto di partenza, la chiave di lettura e lo scopo finale dell’addestramento interiore. Senza questa radicale messa in questione del reale, le varie forme di meditazione rischiano di ridursi a mera ginnastica cognitiva o a superficiali tecniche di benessere – porgendo in questo modo il fianco alle critiche già menzionate. Cerchiamo quindi di capire, ora, come possiamo leggere in quest’ottica le tecnologie di trasformazione interiore che il buddhismo ci offre.

Si pensi, ad esempio, alla meditazione vipassanā così com’è praticata nella tradizione theravāda. In questo tipo di meditazione si è invitati a scandagliare le componenti del flusso dell’esperienza (corpo, sensazioni etc.), favorendo la realizzazione che in questo flusso non c’è nulla di corrispondente a un sé sostanziale, e che questo, appunto, è soltanto un modello con cui l’esperienza è da noi organizzata. Non solo: se consideriamo la meditazione sulla vacuità, ripresa da più voci della tradizione buddhista, troviamo uno strumento che ci accompagna proprio verso questa svolta metacognitiva, con una serie di passaggi stringenti e logici atti a sfidare le resistenze del pensiero. 

D’altro canto, il riconoscimento metacognitivo del modello del sé come modello è parte dello scopo finale anche delle pratiche che lavorano sul versante del «metodo» (upāya), complementare rispetto a quello della «saggezza» (prajñā). Pur mirate, ad esempio, al riconoscimento della sofferenza altrui e allo sviluppo di compassione, nel desiderio di alleviare tale disagio o malessere, queste meditazioni smussano i confini della nostra individuazione e rendono sempre più porosa la barriera che ci distingue dagli altri. Per certi versi, quindi, con una dinamica eminentemente relazionale, tali pratiche preparano il campo proprio per quel risveglio metacognitivo, il cui primo albeggiare rappresenta al contempo la precondizione per la loro corretta applicazione. 

Sempre in un modello relazionale si iscrivono anche le pratiche tantriche ricomprese nello yoga della divinità, che giocano sapientemente proprio con il modello del sé, plasmando quello ordinario e trasformandolo intenzionalmente in un modello che si ispira alle qualità di un essere risvegliato. Non a caso, il nucleo filosofico da cui soltanto la pratica immaginifica della visualizzazione tantrica può dischiudersi è proprio la vacuità. È infatti alla luce della comprensione della vacuità che la propria identità può essere plasmata in linea con le istruzioni e i testi (sādhana), ed è così che, con l’appropriato addestramento interiore e tutti i requisiti della pratica tantrica, si può sapientemente evocare un nuovo modello del sé: il risultato ideale della propria trasformazione. 

Come suggerisce Jay L. Garfield, il percorso di trasformazione interiore conduce ad abbracciare un differente modello del sé, più vicino alla natura effettiva del processo dell’esperienza, nel quale sé e altro da sé sono compresi pienamente nella loro interdipendenza, nella loro essenziale non-dualità. «Per vedere come l’illusione può insinuarsi, qui», osserva Garfield, «è utile concentrarsi su un’immagine alternativa: un modello non-duale dell’esperienza, alla stregua di quello articolato in vari modi dal sistema indiano dell’advaita vedānta, da coloro che hanno operato nella cornice del buddhismo yogācāra, e da Heidegger nella sua fenomenologia esistenziale». Possiamo dunque attingere alle pratiche meditative che lavorano sulla non-dualità e aumentare sempre più l’intensità dell’esercizio metacognitivo di questo approccio, fino a sondare le meditazioni «non duali» o «senza oggetto» presenti, ad esempio, nelle tradizioni tibetane della mahāmudrā e dello dzogchen. Lette in questa chiave metacognitiva, tali meditazioni mirano a rivelare la natura dei fenomeni dell’esperienza come non altra da quella della mente che li ha cognitivamente costruiti. 

 

Perché dovremmo riconoscere i nostri modelli come modelli

Una simile mappatura dell’arsenale meditativo delle tradizioni buddhiste potrebbe continuare, ma una domanda decisiva sorge spontanea: perché questa realizzazione metacognitiva dovrebbe essere auspicabile? Da cosa dovrebbe liberarci? Ebbene, dall’illusione di scambiare per realtà i nostri modelli; dalle varie forme di sofferenza, ma anche di conflitto, che questa forma di attaccamento e identificazione, innanzitutto cognitiva, provoca nelle nostre vite. Dovrebbe salvarci dal tunnel dell’io, in altre parole, che impoverisce e assolutizza la nostra bolla di esperienza, portandoci a scambiarla per realtà e precludendoci una maggiore apertura al flusso dell’esistenza, alla sua vasta e insondabile rete di relazioni dinamiche. 

Ora, resta da capire come portare questi concetti e queste forme di pratica meditativa fuori dall’ambito strettamente tradizionale e religioso, affinché possano essere maggiormente integrate – come già è avvenuto con la Mindfulness – nella cultura e nella società contemporanee, ed essere di beneficio a un maggior numero di persone. Innanzitutto sarebbe utile poter dimostrare che questo cambio di prospettiva, oltre a riflettere ciò che oggi sappiamo dal punto di vista scientifico circa la natura del sé e il funzionamento dei nostri processi cognitivi è effettivamente di beneficio. Dusana Dorjee, in un articolo uscito nel 2016 per la rivista Frontiers in Psychology, suggerisce di orientare la ricerca in ambito contemplativo proprio in questa direzione. La studiosa individua infatti il fulcro della pratica meditativa nello sviluppo di capacità di «metacognizione e autoregolazione», ma anche nel mutamento delle forme di «consapevolezza esistenziale», che riguardano la costruzione del sé e della realtà percepita, nonché l’attribuzione di significato ai fatti della vita. Il suggerimento di Dusana Dorjee pare, di fatto, irrobustire un ramo della ricerca in cui già da qualche anno si comincia a esplorare il processo del «reperceiving» o del «decentering» nella pratica della Mindfulness, sondando dapprima lo scioglimento del rigido senso di individuazione e poi la disidentificazione dallo stesso e lo sviluppo della «prospettiva dell’osservatore» – piccoli segni di un cambio di prospettiva sul senso del sé.

In conclusione, considerando che il campo dei Contemplative Studies, o più in generale il processo di assimilazione del sapere contemplativo (buddhista e non) nella scienza contemporanea, sta ancora muovendo i suoi primi passi, ci sembra di poter ben sperare. Se l’indagine fenomenologica corroborata da innumerevoli praticanti nel corso della storia conduce effettivamente ad alcune verità universali sulla natura del sé e sul processo dell’esperienza, è assai probabile che, per vie più o meno tortuose, questa conoscenza e le sue pratiche possano effettivamente innervare anche la cultura e la scienza contemporanee. Del resto, ciò è già accaduto molte volte in passato, nella diffusione delle tradizioni contemplative nei Paesi asiatici. Certo bisognerà accettare una trasformazione di linguaggi e paradigmi, e qualcosa sarà inevitabilmente tralasciato. Ma, come abbiamo cercato di argomentare, proprio l’aspetto più rivoluzionario del messaggio del Buddha – racchiuso in concetti quali anātman (non-sé), śūnyatā (vacuità) e pratītyasamutpāda (interdipendenza) – potrebbe essere al centro dei prossimi passi nel percorso di integrazione di questa tradizione nel sapere contemporaneo, tutelando in tal modo la radicalità di questa intuizione.

 

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