Ipotizziamo che una persona abbia molto a cuore le questioni etiche legate all’alimentazione e all’allevamento, in particolare il benessere degli animali, ma che, per qualche motivo, scopra che una dieta esclusivamente vegetale non sia adatta a lei. Qual è l’alternativa più sostenibile al veganismo, il miglior compromesso, sempre che di compromesso si tratti?
Circa un anno fa, subito dopo aver intrapreso, per un mese, a una dieta quasi vegana, la questione mi si è posta in maniera molto concreta. Da tempo cerco di avere un’alimentazione attenta alle questioni etiche, evitando, anche se in modo imperfetto, i prodotti disumani dell’allevamento intensivo. Tuttavia ho mangiato regolarmente prodotti animali, inclusi carne e pesce. Dopo essermi dedicato a lungo, negli ultimi anni, a diverse questioni riguardanti la mente degli animali (cercando, in un primo momento, di comprendere i polpi e gli altri cefalopodi, per poi, da lì, proseguire le mie ricerche), i problemi etici legati all’alimentazione hanno iniziato a presentarsi con una certa insistenza. Così ho deciso di provare a vedere come mi sarei sentito se avessi adottato una dieta quasi completamente priva di prodotti animali.
Il mio piano alimentare era quasi vegano, dato che mi concedevo due uova al giorno e alcune piccole deviazioni (non mi preoccupavo se mi davano il burro per il pane tostato, non indagavo nel dettaglio gli ingredienti delle salse thailandesi e continuavo ad assumere le mie solite compresse di olio di pesce). Ho incluso le uova perché, grazie a una serie di esperimenti dietetici risalenti a qualche decennio prima, ho scoperto che una dieta ad alto contenuto di proteine e di grassi è la più adatta al mio benessere generale. Così ho pensato che due uova, unite agli integratori proteici, avrebbero aiutato a rendere più fluida la transizione. Le uova da allevamento all’aperto sono, a mio avviso, il prodotto alimentare più etico fra i tanti disponibili. Alcuni vegani sostengono che mangiare uova di qualsiasi tipo non sia etico, altri invece ritengono che sia una scelta più sostenibile rispetto ad altri alimenti di origine animale. (Peter Singer, nel suo Liberazione animale, considera accettabile la produzione di uova da allevamento all’aperto).
Lo scopo dell’esperimento era prendere in esame la possibilità di abbracciare il veganismo, appellandosi principalmente al benessere degli animali. Certo, accetto e condivido alcune tesi contro il consumo di carne per ragioni ambientali, ma le questioni relative alla sofferenza degli animali per me sono di assoluta importanza.
Con mia sorpresa, l’esperimento si è presto trasformato in un illuminante fallimento. Nel giro di pochi giorni, sostenere questo regime alimentare si è rivelato molto più arduo di quanto mi aspettassi. Mi sentivo inquieto, stanco e, per la maggior parte del tempo, avevo, incredibilmente, piuttosto freddo (a febbraio, in Australia). Acidità di stomaco, mal di testa, disattenzione… non è andata bene. Il decimo giorno ho deciso di cambiare programma e di aggiungere alla dieta alcuni latticini per la settimana centrale del mese. Questa transizione non è stata meno sorprendente della precedente. Mi sono immediatamente sentito meglio, tutti i problemi erano spariti. Anzi, mi sentivo più che bene, mi sentivo in ottima forma. Dieci giorni dopo ho ripreso il regime quasi vegano. I risultati sono stati scoraggianti come la prima volta e, quindi, ho di nuovo cambiato dieta. Alla fine del mese, ne avevo passato metà da quasi vegano e metà da vegetariano.
Forse avrei dovuto perseverare nella prima dieta, prevalentemente vegana, e aspettare di abituarmici. (A quanto ne so il microbioma di un individuo, la sua ecologia intestinale, deve sopportare alcune modificazioni). Tuttavia non riuscivo a superare un certa riluttanza, in particolare durante la pandemia di COVID-19. Giorno dopo giorno, pervaso da quella sensazione di irrequietezza, sospettavo di essere più vulnerabile agli agenti patogeni del solito. Ero sicuro che, a un certo punto, avrei contratto il COVID-19 (e così è stato, circa un mese dopo) e, a livello fisico, volevo essere ben equipaggiato per combatterlo.
Mi rendo conto che si è trattato di un esperimento molto breve. Ma i momenti di transizione tra le varie diete mi hanno posto, in maniera molto chiara, di fronte a diverse scelte. Poniamo che si decida che una dieta esclusivamente vegetale o quasi vegana non funzioni e che si debba integrare qualcosa. Se ci si vuole discostare di poco da questo regime, concentrandosi in particolare sulle questioni legate al benessere degli animali, allora si presentano tre opzioni, che comportano giustificazioni completamente diverse fra loro:
- carne da allevamento sostenibile (soprattutto di manzo)
- pesce pescato in natura
- prodotti caseari (di produzione tradizionale)
Non sono, ovviamente, le uniche opzioni possibili (ne esaminerò altre più avanti), ma sono le più ovvie e più facilmente perseguibili in un ambiente urbano o suburbano del mondo sviluppato. Ipotizziamo, per iniziare, che il nostro obiettivo sia scegliere fra una di queste opzioni. Quale dovrebbe essere?
Sopra ho detto che ciascuna comporta una giustificazione diversa – differenza che, se si osserva con attenzione, in questo contesto si presenta come una sorta di incommensurabilità. Questo termine filosofico si riferisce all’impossibilità di misurare o confrontare diverse alternative utilizzando uno standard indistintamente applicabile. Non esiste una «valuta comune» o un metro di misura adeguato. Queste tre possibili modalità di acquisto implicano diverse modalità di considerare le questioni morali.
Cerchiamo esemplificare le singole opzioni prima di esaminarne l’aspetto etico. Quando, rispetto alla prima opzione, parlo di carne di manzo allevata in modo sostenibile, mi riferisco a una carne di manzo prodotta in maniera così umana e compassionevole, da rendere ragionevolmente accettabile l’idea che queste mucche, nei loro allevamenti, vivano, nel complesso, una buona vita – una vita probabilmente migliore di quella che potrebbero vivere quasi tutti i mammiferi non umani. Non si tratta solo di carne da supermercato etichettata come «da allevamento all’aperto», ma di una frazione ancora minore della carne prodotta. È carne che, di solito, proviene da macellerie specializzate che lavorano con singoli allevamenti. E, oggi, è possibile trovarla in molte città. Tende a essere più costosa della carne di produzione meno sostenibile, e questo vuol dire che non è una scelta alla portata di tutti. Ma là dove sia un’opzione percorribile, vale sicuramente la pena prenderla in considerazione. (E i polli, i maiali e così via, da allevamento sostenibile? Sì, vale lo stesso per loro, ma ogni caso è un po’ diverso e io mi concentrerò, un po’ di più, sulla carne bovina). La vita di questi animali è, nel complesso, una buona vita. D’altra parte, per quanto umanamente possano essere cresciuti, l’uccisione è inevitabile, e forse c’è qualcosa di irrimediabilmente sbagliato in una pratica che consiste nell’allevare animali senzienti al solo fine di ucciderli.
Si potrebbe invece optare per i pesci, e altri frutti di mare, pescati in natura – seconda opzione. Anche in questo caso l’uccisione degli animali fa parte del quadro, ma il nostro rapporto con la loro vita è molto diverso da quello visto nella prima opzione. Qui, il nostro ruolo consiste nell’interrompere una vita che sarebbe finita comunque – non alleviamo gli animali solo per ucciderli. (Non includo, in questa opzione, nessun animale che venga effettivamente allevato per essere pescato o cacciato). Credo che le morti legate alla pesca commerciale non siano poi così terribili se paragonate a quelle che avrebbero luogo in natura. Ma la morte è morte, una morte che avviene per mano nostra, e i numeri sono enormi.
La terza opzione è quella dei latticini. Potrei diventare uno di quei vegetariani epicurei che non mangiano carne ma hanno una conoscenza impressionante delle infinite sottigliezze internazionali del formaggio. Qui i problemi sono diversi. Penso che la vita delle mucche da latte negli allevamenti tradizionali sia pessima. Probabilmente non sono neanche paragonabili a quelle dei maiali da allevamento intensivo, ma senza dubbio peggiori di quelle delle mucche che vengono allevate, in maniera sostenibile, per essere mangiate, e, forse, spesso peggiori di quelle dei bovini da carne allevati in modo tradizionale (anche se non ne sono sicuro. Tutto dipende dagli specifici dettagli delle vite prese in esame).
Perché, nel contesto di questa opzione, suppongo che i prodotti caseari siano lavorati in modo tradizionale? Perché non supporre che anche questa scelta, come nel caso della carne bovina, derivi da un allevamento speciale, umano? Quando, nel corso del mio esperimento, ho soppesato le scelte possibili, i latticini, prodotti in modo etico, non erano disponibili dove vivevo – la carne bovina sì. Non è un caso. Sembra piuttosto difficile adeguare l’allevamento di bovini da latte ai livelli di benessere che si riscontrano nei migliori allevamenti etici di bovini da carne, per quanto sia una possibilità economicamente sostenibile. Conosco un’azienda lattiero-casearia australiana esemplare in questo senso: How Now Dairy. Questa azienda lascia che mucche e vitelli vivano insieme, che condividano il latte. Non vengono separati precocemente. Con quel latte si produce anche del formaggio, benché sia difficile trovarlo nella zona in cui vivo. (Sarò sincero: posseggo un piccolo numero di azioni di questo caseificio).
Può darsi che questa forma di produzione casearia etica possa sopravvivere ed espandersi, nel qual caso una scelta orientata ai latticini sarebbe chiaramente la migliore. Ma, al momento, gran parte del latte, del formaggio e del burro consumati dai vegetariani sono prodotti in modo piuttosto crudele. Scegliere i latticini «biologici» è qualcosa che può fare la differenza? Le norme che regolano il conferimento dell’etichetta «biologico» variano da luogo a luogo (come, più in generale, le condizioni delle aziende lattiero-casearie). In certi contesti probabilmente può fare una differenza significativa, in altri no. Inoltre, molti formaggi tradizionalmente contengono il caglio, un enzima ricavato dalla mucosa gastrica dei vitelli uccisi, il che ha reso il formaggio una scelta più problematica per i vegetariani. Oggi, però, molti formaggi possono essere prodotti con sostituti del caglio.
Supponiamo, ancora una volta, che i prodotti lattiero-caseari presi in considerazione siano di allevamento tradizionale, o qualcosa del genere. Quando mangiamo questi prodotti, non mangiamo il corpo di un animale, ucciso esclusivamente per essere mangiato (come nella prima e nella seconda opzione). Mangiamo, invece, del cibo che è stato prodotto da un animale ancora vivo. Non è raro che, con i sistemi di allevamento moderni, una mucca produca 40.000 litri di latte, o più, nel corso della sua vita – ossia tantissimo cibo (per dire, 4.000 kg, cioè più di 4 tonnellate, di cheddar). Se ignoriamo potenziali sprechi o simili, anche se mangiassimo mezzo chilo di formaggio al giorno per cinquant’anni, avremmo mangiato all’incirca la produzione di latte di una mucca.
Eppure, la vita di quella mucca di solito è tutt’altro che piacevole. Le mucche devono essere gravide, o aver partorito da poco, per poter produrre latte, e il risultato è un ciclo infinito di gravidanze che si protrae per l’intera vita – piuttosto breve – della mucca, che viene allontanata, quasi immediatamente, dai vitelli. In alcuni Paesi, molte o la maggior parte delle mucche da latte, non vedono mai il mondo esterno. Se, dopo la morte, mi reincarnassi, preferirei essere una mucca da carne in un allevamento etico piuttosto che una mucca da latte in qualsiasi caseificio moderno. Un allevamento etico, compassionevole, in cui mucche e vitelli vivono insieme potrebbe essere la soluzione migliore, ma, di nuovo, presumo che economicamente risulti molto più difficile da realizzare rispetto a un allevamento cruelty free di bovini da carne.
Riflettendoci, inizialmente ho avuto la sensazione che dovesse esserci una scelta migliore tra le tre. Propenderei nettamente per una di queste opzioni se pensassi che è la migliore. Con questo non intendo dire che non ritratterei mai una scelta del genere, ma non lo considero un aspetto rilevante. Sarebbe bene avere un’idea di quale sia l’obiettivo migliore da perseguire, anche se poi lo si perseguisse con una certa flessibilità, o, più banalmente, incostanza. Ma se osserviamo con più attenzione le argomentazioni, ciascuna delle tre, seguendo diversi ragionamenti, potrebbe essere la migliore.
A favore dei latticini tradizionali: l’uccisione di un animale senziente potrebbe essere un danno senza pari, e l’opzione casearia lo riduce al minimo. Rispetto alle altre due opzioni, sono coinvolti molti meno animali. Nel conteggio delle vite perse, dovremmo però includere anche un po’ più della metà dei vitelli partoriti da una mucca. Una volta nati, tutti i maschi e alcune femmine vengono uccisi abbastanza in fretta. I loro corpi vengono utilizzati in qualche modo, ma in generale sono considerati animali di scarso valore. Il numero di cadaveri del settore lattiero-caseario resta comunque di gran lunga minore rispetto a quello delle altre opzioni.
Questa argomentazione a favore dell’opzione lattiero-casearia è, in un certo senso, un’argomentazione pessimistica. È una pratica negativa, sì, siamo d’accordo, ma non lo è poi eccessivamente. Al contrario, l’opzione etico-bovina ha una sorta di difesa positiva. Secondo diversi punti di vista etici, questa pratica può essere portatrice di un bene positivo . È quasi scontato far notare come una difesa di questo tipo sia perfettamente nelle corde di un utilitarista – utilitarista è, difatti, chi soppesa la totalità delle conseguenze positive e negative di un’azione e valuta l’azione esclusivamente in questi termini. Ma gli utilitaristi non sono gli unici potenziali sostenitori di questa forma di allevamento. Una posizione opinabile degli utilitaristi è quella di non preoccuparsi della distribuzione delle conseguenze positive e negative rispetto ai diversi individui: se il piacere di una persona è abbastanza grande, può compensare il dolore di altre. Nel caso dell’allevamento etico o cruelty free, è possibile adottare una difesa che tenga conto delle conseguenze positive e negative della pratica in relazione a ogni singolo animale. L’animale X vive, nel complesso, una buona vita e non è necessario che i costi e i benefici per l’animale Y, o per i consumatori umani, vengano considerati.
Nel caso della pesca sostenibile, non penso sia possibile elaborare un’argomentazione secondo cui si tratterebbe di un bene positivo per il pesce (salvo nei casi in cui la sua morte naturale fosse decisamente più sgradevole). Si potrebbe però difendere questa pratica sostenendo che gli esseri umani, in questo caso, non fanno altro che riprendere il ruolo da loro storicamente occupato nelle reti alimentari naturali. Non stiamo istituendo, come nel caso dei latticini e delle carni bovine cruelty free, una nuova, diversa, serie di relazioni tra le nostre vite e quelle degli animali. Ogni pesce che uccidiamo un giorno morirà comunque. Noi, dal canto nostro, non abbiamo imposto regole, vincoli o limiti alle loro vite.
Il consumo di pesce d’allevamento non rientrerebbe in una simile difesa. I problemi relativi al benessere animale associati all’allevamento ittico, almeno in molte forme, sembrano gravi. L’allevamento ittico non sarebbe difendibile secondo nessun percorso logico discusso in questo saggio. Che dire, invece, dell’allevamento di animali marini rispetto al quale le questioni relative alla sofferenza sono assenti, o se non altro molto meno rilevanti? Probabilmente esistono diversi casi di questo tipo – ostriche, vongole, cozze – ma la lista è ben più corta di quanto potesse sembrare un tempo. Nell’elenco non comparirebbero i gamberi, per esempio. D’altra parte, la mia difesa del consumo di pesce selvatico potrebbe benissimo applicarsi alla selvaggina – cervo (selvatico) e cinghiale, per esempio. Qualcuno potrebbe pensare che questi casi sollevino problemi specifici, dal momento che gli animali cacciati sono mammiferi. I numeri, tuttavia, sono di gran lunga minori.
Le argomentazioni a favore del pesce pescato in natura potrebbero essere applicate a qualsiasi animale marino? Non necessariamente, poiché in alcuni casi il trattamento riservatogli può dimostrarsi insolitamente crudele, come nel caso di aragoste e altri crostacei che vengono bolliti vivi.
Sono ben consapevole di quanto possa sembrare incongruente sostenere che una qualsiasi forma di allevamento etico che contempli la morte degli animali possa essere un bene positivo . Ma è un terreno in cui diverse prospettive finiscono per occupare posizioni scomode. Ho un’ammirazione sconfinata per il lavoro di Animals Australia. La mia ammirazione per questa organizzazione, voglio dirlo subito, è pressoché sconfinata. Per molti anni, per esempio, fra le loro numerose azioni degne di nota, si sono opposti alla incredibilmente crudele esportazione di bovini e ovini dall’Australia al Medio Oriente. Il che deve servire da contesto per le critiche che muoverò a questo loro messaggio sui social media.
Il video suggerisce che, scegliendo alimenti a base vegetale, possiamo dare alle mucche «la vita che sognano» – una vita tranquilla e felice. Ma se i regimi alimentari umani finissero per essere dominati in forma esclusiva da cibi di origine vegetale, lo scenario risultante non vedrebbe delle «mucche felici», ma molto probabilmente «niente più mucche». Non ci sarebbe più motivo di dare alle mucche una vita di alcun tipo, se non, forse, per alcuni esemplari negli zoo e simili (e gli zoo, ovviamente, sollevano un’altra serie di questioni etiche). Se vogliamo che ci siano mucche felici, indipendentemente dal loro numero, ne consegue la necessità di continuare a praticare una qualche forma di allevamento. Quanto detto dà forza concreta all’idea secondo cui l’allevamento etico di bovini può essere giustificato come un bene positivo, piuttosto che come qualcosa di meno negativo di quanto accada adesso.
Questo saggio non è un esercizio dialettico la cui conclusione è stata scelta fin dall’inizio e il cui obiettivo è invogliare, o convincere, il lettore a condividerla. Non so dove mi porterà questa discussione. A un’analisi spassionata, le argomentazioni a favore dell’allevamento etico della carne di manzo sembrano valide, ma in parte condivido il disagio dei vegetariani rispetto a questa opzione. Ciascuna delle restanti opzioni presenta i suoi vantaggi e nessuna mi sembra irragionevole.
Una risposta a questa situazione potrebbe essere: sceglietele tutte! Distribuite le scelte. Se questa fosse la nostra soluzione, qualsiasi prodotto alimentare sarebbe difendibile seguendo una certa linea di pensiero. Comprendo, tuttavia, chi potrebbe replicare dicendo «prendi una decisione!».
Qui, assume una certa rilevanza una recente corrente di pensiero della filosofia morale. Alcuni sostengono che, se si sta cercando di capire che cosa fare in una situazione di incertezza rispetto a diversi argomenti morali, si dovrebbe fare una sorta di calcolo del «valore previsto» – scegliere, cioè, l’azione che, alla luce di tutte le diverse teorie morali potenzialmente corrette, risulta migliore. Se si è equamente scissi fra una visione utilitarista e una visione kantiana fondata su diritti e doveri, per esempio, si può cercare di trovare soluzioni che possano andare bene per entrambe. Se si è più utilitaristi ma si hanno dei dubbi kantiani, si può dare maggior peso alle ragioni utilitaristiche, ma cercare comunque qualche soluzione che abbia senso nel caso in cui la visione kantiana fosse corretta. Una simile discussione riguardo a una teoria morale che alla fine si riveli giusta, o corretta, più o meno come il tempo che domani si rivelerà in un modo o nell’altro, mi sembra filosoficamente fuori luogo, ma posso comprenderne il fascino pratico. Che cosa comporterebbe nel nostro caso? Potrebbe forse voler dire che si possono effettivamente mescolare o combinare le tre cose, o si tratta invece di una prospettiva che ignora il fatto che, secondo alcune delle concezioni morali prese in considerazione, uccidere esseri senzienti è un danno enorme?
Per concludere, mi rendo conto che almeno alcune delle opzioni che ho qui preso in considerazione non sono «scalabili» – non possono cioè offrire, restando inalterate, una soluzione alle questioni alimentari che sia valida per l’intera umanità, soprattutto a lungo termine. Si tratta di riflessioni rivolte alle persone che ora, in questo momento, si trovano in una condizione in cui tutte e tre le opzioni discusse sono scelte percorribili nel quotidiano, a seconda della loro situazione economica e di quanto è disponibile, nel luogo in cui vivono. In futuro le cose saranno diverse. Non ci saranno solo sviluppi nella produzione alimentare a base vegetale ma, tecnologia permettendo, anche carni coltivate o prodotte in laboratorio. Il fatto che, in futuro, le nostre scelte alimentari saranno molto diverse non influisce minimamente sulle scelte che abbiamo a disposizione ora. E, quantomeno per chi, fisiologicamente, rifiuta il veganismo, è una scelta concreta. Non sono giunto, alla fine, a una conclusione definitiva. Voi che cosa ne pensate?