Sei a caccia in una zona selvaggia del Texas quando ti si apre davanti una scena che sembra un incubo: cadaveri di morti ammazzati e segni evidenti di uno scambio fra narcotrafficanti finito tragicamente, in cui nessuno si è salvato. Ma dove sono i soldi? Segui le impronte e scopri un ultimo cadavere con accanto una cartella di cuoio che contiene più banconote di quante tu ne abbia mai viste insieme. Hai due possibilità: prendere i soldi per costruirti una nuova vita, pur sapendo che qualcuno si metterà sulle tue tracce, o lasciarli dove sono e tornare alla tua dura vita quotidiana. Il tuo passato, tutto quello che hai fatto fino a quel momento, ti ha portato fin lì. Cogli l’occasione e scappi via.
È la scena cruciale di Non è un paese per vecchi, il romanzo di Cormac McCarthy, scomparso di recente all’età di 89 anni, e il film premio Oscar dei fratelli Cohen (2007). Llewelyn Moss, l’uomo che ha scoperto quel denaro, viene braccato da un implacabile inseguitore, Anton Chigurh, interpretato nel film da Javier Bardem, che uccide chiunque gli sbarri la strada, con freddezza e senza pietà. Dal momento in cui Moss prende la borsa, il suo destino è segnato.
I romanzi di McCarthy sono in genere sanguinolente esplorazioni, scritte in una prosa brillante, delle illusioni che sorreggono la vita della gente comune. Vanno alla ricerca della saggezza, dicendoci, per usare le parole di Virginia Woolf a proposito di Joseph Conrad, «qualcosa di molto antico e assolutamente vero, qualcosa di nascosto che ora ci viene rivelato». Malgrado la loro tetraggine, sono libri che ai miei occhi appaiono buddhisti. Nel caso di Non è un paese per vecchi, il collegamento con il Buddhismo è evidente, in quanto il romanzo è fondamentalmente una rielaborazione del Racconto dell’Indulgenziere di Geoffrey Chaucer (uno dei più bei racconti mai scritti), la cui fonte primaria è un racconto del Jataka buddhista. Per rintracciare queste influenze e vedere cosa ci dicono di McCarthy vale la pena cominciare dall’inizio.
Il Jataka parla delle vite precedenti di una persona che alla fine diventa il Buddha. Nelle nostre fonti è chiamata bodhisattva, termine che viene dal sanscrito. In ogni vita il bodhisattva apprende una lezione o sviluppa una virtù morale che al termine lo prepara all’illuminazione, e il Jatakamala contiene 547 racconti di questo genere. Molti sono ben noti alla cultura buddhista dell’Asia, ma sono assai meno conosciuti in Occidente, dove il lettore può essere respinto dall’importanza che in essi occupa la rinascita o dalla semplicità della loro morale.
Nel Vedabbha Jataka, il bodhisattva viene mandato come apprendista da un bramino che conosce il potente mantra Vedabbha, una formula magica che può far piovere gioielli se recitata in una particolare congiunzione lunare. Dei briganti prendono in ostaggio i due uomini e mandano il bodhisattva a procurarsi il riscatto per il suo maestro. Fiutando il pericolo, il bodhisattva mette in guardia il bramino: «Qualunque cosa facciate, non ricorrete al mantra». Ma durante la sua assenza, il bramino nota che la congiunzione è in atto e pensa: «Potrei fare apparire i gioielli e pagare il riscatto in questo modo».
I briganti ottengono il denaro che volevano e tutti sono felici, finché l’intera banda non viene catturata da un altro gruppo, che chiede perentoriamente al bramino di ripetere l’incantesimo. Il bramino risponde che può far piovere gioielli solo quando si produce un particolare allineamento di certi astri, e allora i briganti lo tagliano in due. A quel punto scoppia una lotta furibonda fra le due bande. Alla fine muoiono tutti tranne due, e questi sopravvissuti nascondono il tesoro in un covo nella giungla. Poi uno va in città per comprare del riso e lungo il percorso decide di metterci del veleno, in modo da tenere il tesoro tutto per sé. Contemporaneamente l’altro, rimasto a guardia del tesoro, ha la stessa idea: uccide il compagno appena lo vede arrivare, poi mangia il riso e muore.
Il bodhisattva torna e trova il cadavere del suo maestro, i briganti morti e il tesoro. Capisce al volo come sono andate le cose, rendendosi conto che il disastro è avvenuto perché il bramino non ha dato retta al suo consiglio, e conclude: «Chi cerca il profitto con metodi disonesti finisce male». Commentando la traduzione del racconto da lei effettuata nel 2006, Sarah Shaw suggerisce che il ruolo del bodhisattva capace di ricostruire con lucidità la catena degli eventi lo rende «uno dei primi protagonisti di un racconto poliziesco».
Non sappiamo per quali vie la storia del Vedabbha Jataka sia giunta in Europa, ma possiamo immaginare che sia stata ripetutamente raccontata nei bivacchi lungo le rotte commerciali che univano l’India al Medio Oriente, dove compare una sua versione nelle Mille e una notte. Forse dei pellegrini o dei crociati ebbero modo di ascoltarla nel corso dei loro viaggi verso la Terra Santa, e la raccontarono a loro volta appena tornati nell’Inghilterra del Trecento, dove erano ancora vivi i ricordi della Peste nera. Giunse così all’orecchio di Geoffrey Chaucer, mentre raccoglieva i materiali confluiti nei Racconti di Canterbury. Uno di questi ha per voce narrante un indulgenziere (un individuo autorizzato dalla Chiesa a concedere la remissione della pena per i peccati commessi), e gli studiosi già tempo fa hanno notato come il Racconto dell’Indulgenziere condivida alcuni aspetti con il Vedabbha Jakata.
Il racconto di Chaucer inizia con tre giovani uomini che bevono e giocano a dadi in una taverna. Sentono dire che un loro amico è stato ucciso da un personaggio chiamato «Morte», uno che ne ha già ammazzati tanti, e decidono di eliminarlo. Chiedono a un vecchio dove possono trovare «Morte» e quello risponde che lo troveranno sotto un albero non lontano. Quando arrivano nel punto indicato, scoprono un mucchio di fiorini d’oro e dimenticano la missione che si erano dati. Uno dei tre viene mandato a comprare del pane e del vino, e come nello Jataka decide di avvelenare il vino per tenersi il denaro. Per lo stesso motivo, gli altri due decidono di uccidere l’amico. La morale che ne tira l’Indulgenziere è «radix malorum est cupiditas», che possiamo tradurre «la cupidigia è l’origine di tutti i mali».
Il vecchio inventato da Chaucer è un tocco geniale, come lo è l’idea di mettere il racconto in bocca all’Indulgenziere, che cerca di usare il suo potere per spillare dei soldi a chi lo ascolta. Ma la differenza maggiore fra la versione di Chaucer e il Jataka sta nel desiderio di rintracciare Morte manifestato dai tre giovani e nell’ironia del fatto che lo trovano davvero, anche se non nella forma che immaginavano. Il significato della storia si estende così dagli effetti della cupidigia al nostro rapporto con la morte, e anche questo costituisce un legame con Non è un paese per vecchi.
Il Racconto dell’Indulgenziere ci aiuta a capire il significato di Chigurh. Come killer psicopatico è poco credibile, ma il confronto con Chaucer ce lo rivela come la personificazione di Morte. «Quanto è pericoloso?» domanda qualcuno a una persona assoldata per fermare Chigurh. «In confronto a cosa?» risponde quella. «Alla peste bubbonica?»
È inutile chiedersi perché Chigurh uccide, come fanno tutti. Morte uccide, e tanto basta. Noi cerchiamo di mercanteggiare con la morte, ma il massimo che Morte fa è lanciare una monetina per stabilire se ti ucciderà.
Si può considerare Non è un paese per vecchi come una spietata versione dell’insegnamento buddhista del karma. Chighur dice a una vittima: «Ogni momento della tua vita rappresenta una svolta e una scelta. A un certo punto hai compiuto una scelta. E tutto è andato di conseguenza. La contabilità è precisa». Moss è condannato dalla stessa logica morale che colpisce le vittime nei due racconti che fanno da precursori al romanzo, e la scena iniziale affollata di cadaveri ricorda il Jataka. Come il bodhisattva, Moss – il personaggio che trova i cadaveri, interpretato nel film da Josh Brolin – capisce chiaramente cosa è successo, ma a differenza del bodhisattva non impara la lezione che la scena gli sta insegnando con tanta virulenza.
In realtà, il messaggio che McCarthy ci vuole dare è più sottile. Dopo aver preso il denaro, Moss torna sulla scena del crimine per dare da bere a un ferito, ed è l’accostamento di queste due azioni a condannarlo. Noi soffriamo perché siamo intrappolati nel mondo, vogliamo al tempo stesso essere buoni e avere ciò che vogliamo. Pensiamo che la vita sia dalla nostra parte, quando invece, come dice il Buddhismo, è caratterizzata dalla sofferenza, dall’impermanenza, dall’inconsistenza. Chigurh dice che la fonte del suo potere sta nel fatto che la gente vuole prevalere sulla morte e nel contempo rifiuta di ammetterne l’esistenza.
È una dolorosa presa di coscienza, e il Buddhismo aggiunge che vedere oltre le nostre illusioni conduce alla saggezza, alla compassione e alla liberazione. Non c’è molto di questo sulla superficie di Non è un paese per vecchi, o di altre opere di McCarthy, ma se si scava in profondità si trova questo insegnamento. Il corrispettivo del bodhisattva protagonista del Vedabbha Jataka è Bell, lo sceriffo interpretato nel film da Tommy Lee Jones, che dà la caccia a Chighur ed ha chiara l’intera vicenda. Ciò che impara lo rende più saggio, gli fa capire meglio l’importanza di vivere bene e di lasciar perdere le illusioni.
Alla fine, sia del film che del libro, Bell descrive un sogno. Segue suo padre a cavallo attraverso le montagne, vede che quell’uomo tiene in mano una fiaccola ricavata da un corno e capisce che gli sta davanti per creare un rifugio di luce nel buio della notte. Per me, questa è un’immagine di come sopravvive la speranza. Ma è anche un’immagine in cui si concentra la saggezza degli antichi racconti trasmessi da una generazione all’altra, attraverso i continenti e in tutti i generi letterari possibili.
Quella saggezza brilla di nuovo nei romanzi lucidi e profetici di Cormac McCarthy, anche nell’attimo in cui gli diamo l’ultimo saluto. Sono fonte di luce in tempi bui.