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La mezza verità del realismo politico occidentale

La parabola dei ciechi e dell’elefante è una delle più antiche del canone buddhista. Un re fa condurre un elefante nel suo palazzo e chiede ai ciechi della città di esaminare e descrivere l’animale. Un uomo che posa la mano sulla proboscide dichiara che l’elefante è come un grosso serpente, mentre altri, che toccano i fianchi o le gambe, lo descrivono come un muro o un albero. Benché le loro percezioni soggettive restituiscano una «verità» parziale, tutti travisano la vera natura dell’elefante. Allo stesso modo, i teorici del realismo politico occidentale, nel descrivere un mondo apparentemente conflittuale fatto di stati indivisibili, materialmente reali e anarchicamente mossi da interessi propri, fraintendono il mondo nella sua effettiva realtà. Questa fondamentale incapacità di distinguere tra percezione e realtà, tra il mondo come appare e il mondo così com’è in realtà, questa mezza verità del realismo, se così si può dire, è in definitiva un’illusione che contribuisce a perpetuare un mondo di conflitti, guerre ed esclusioni.

 

Questo articolo presenta una critica buddhista del realismo politico occidentale sostenendo che la vera natura della nostra esistenza – sia come individui che come Stati – non è quella di entità indivisibili e indipendenti. Al contrario, in termini buddhisti, la nostra realtà (compresi «noi stessi») è radicalmente interdipendente e impermanente. Inoltre, una volta realizzata questa verità fondamentale, la nostra naturale disposizione sociale di base sarà l’equanimità e l’altruismo, non l’egoismo. Nel loro insieme, l’ontologia e la concezione buddhista della natura umana offrono un punto di partenza altro per pensare a noi stessi e al mondo in cui viviamo, un mondo considerato profondamente interdipendente e in cui le prospettive di cooperazione politica hanno una portata molto ampia. La critica buddhista al realismo politico muove dall’idea che l’incapacità di apprezzare la portata dell’interdipendenza e la nostra natura profonda sia la fonte ultima di tutti i conflitti, fino alla guerra tra stati, mentre la comprensione della nostra radicale interdipendenza e del potenziale umano è la chiave per immaginare una visione diversa della politica.

 

Come prima cosa, riassumiamo brevemente le ben note posizioni teoriche del realismo politico e il suo fondamento meta-teorico. In seguito, opporremo a questa concezione della realtà una visione buddhista dei fondamenti dell’ontologia, della natura umana, della politica e delle relazioni internazionali. Per concludere, presenteremo in sintesi le caratteristiche salienti dell’approccio buddhista alla concezione del mondo, del ruolo che vi svolgiamo e dell’ambiente politico che meglio favorisce l’evoluzione della nostra natura. Mostreremo in questo senso che i principi buddhisti del buon governo e dell’arte politica offrono principi validi per sviluppare soluzioni adeguate ai problemi contemporanei.

 

 

Il realismo politico occidentale

 

Negli anni ’40, la dottrina «realista» occidentale delle relazioni internazionali (IR) sosteneva che le verità eterne e le «leggi oggettive» delle relazioni internazionali erano la volontà di dominio, la violenza intrinseca della natura umana, la competizione, e la tendenza naturale e anarchica degli Stati sovrani e autonomi a farsi la guerra1Morgenthau 1948, 4. Queste idee sulla natura umana e sul comportamento degli Stati venivano presentate come verità immutabili e sono tuttora in molti a considerarle come tali. La teoria trovava fondamento nella storia dell’Europa occidentale a partire dal XVII secolo, quando l’istituzione di unità sovrane e indipendenti (gli Stati) divenne la pietra miliare della teoria occidentale delle relazioni internazionali. Per sovranità si intendeva che il soggetto statale aveva il diritto di governare su un territorio e su chi lo abitava, e che sul piano giuridico era uguale a tutti gli altri Stati in termini di autonomia e autorità. La teoria «realista» tradizionale delle relazioni internazionali metteva in risalto l’indipendenza, e non l’interdipendenza, degli Stati come attori che operano in un contesto anarchico, in cui cioè non esiste un’autorità centrale che protegga gli Stati l’uno dall’altro o che garantisca la loro sicurezza. Il realismo inoltre sottolinea la persistente propensione al conflitto tra questi Stati autonomi ed egoisti che cercano di garantirsi la propria sicurezza ricorrendo esclusivamente a mezzi autonomi. Secondo i propugnatori del realismo, date queste condizioni sistemiche, la cooperazione internazionale è un fenomeno raro, effimero e labile, circoscritto dalle difficoltà di metterla in atto in condizioni di anarchia e dal fatto che in ogni potenziale accordo ciascuno Stato preferisce ottenere un guadagno relativo maggiore a causa della sua vulnerabilità sistemica. La guerra, quindi, è qualcosa di perfettamente normale, etico e dà forma a una «diplomazia con altri mezzi» 2von Clausewitz, 1989.

 

Riguardo ai suoi fondamenti meta-teorici, il realismo politico si conforma ai principi scientifici classici dell’Illuminismo riguardo al mondo fisico: realismo materialista, oggettivismo e causalità localizzata. Dal punto di vista ontologico, i realisti politici aderiscono alla separazione cartesiana tra soggetto e oggetto, tra il sé e l’altro e tra la mente e la materia; dal punto di vista epistemologico, sostengono l’assunto positivista della possibilità di raggiungere generalizzazioni analoghe a leggi sul comportamento sociale, svincolate dall’etica, alla stregua degli scienziati che cercano di accertare i fatti del mondo naturale; dal punto di vista metodologico, infine, privilegiano un empirismo indipendente e replicabile. La principale conclusione politica che deriva da questa base scientifica classica è che l’insicurezza e il conflitto nascono spontaneamente in gruppi di attori intrinsecamente reali, indipendenti e mossi da interessi personali. Pertanto, i benefici della vita sociale sono esiti improbabili senza un contratto sociale basato sulla paura a livello nazionale e, per estensione, senza il perseguimento di un equilibrio di potere tra gli Stati che agiscono in un ambiente anarchico a livello internazionale.

 

La carta vincente del realismo politico è sempre stata che, per quanto cruda sia questa immagine della vita politica e per quanto scoraggianti le prospettive che ne derivano, è una visione che restituisce «le cose così come stanno», preservandoci da un danno maggiore che deriverebbe dall’adozione di prospettive alternative e meno realistiche. Machiavelli, ad esempio, avverte che «egli è tanto discosto da come si vive, a come si doveria vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doveria fare, impara piuttosto la rovina, che la preservazione sua» 3Machiavelli 1532, Cap. XV. O ancora, E. H. Carr secondo cui «il realismo tende a evidenziare la potenza irresistibile delle forze in essere e il carattere inevitabile delle tendenze in atto, e a insistere sul fatto che la massima saggezza risiede nell’accettare queste forze e tendenze e nell’adattarsi ad esse» 4Carr 1964, 10. Oppure Hans Morgenthau, che rivendica una teoria fondata su precedenti storici piuttosto che su principi astratti, e orientata alla realizzazione del male minore piuttosto che del bene assoluto.

Paradossalmente, il presunto punto di forza del realismo, ovvero un’osservazione senza sconti della «realtà», è, da una prospettiva buddhista, il suo più grande difetto. In realtà, da una prospettiva buddhista, il realismo politico si basa sulle apparenze, non sulla realtà, e le apparenze possono trarre in inganno.

 

Il «realismo» buddhista

In termini buddhisti, ogni il sorgere (e il cessare) di ogni realtà funzionale di cui abbiamo percezione dipende dalle sue cause e dalle sue condizioni, dalle sue parti costitutive e dalle menti che la percepiscono: come l’arcobaleno che appare ai nostri sensi quando il calore, la luce e l’umidità si uniscono in un certo modo e si dissolve al mutare di queste condizioni. È il principio della cosiddetta originazione interdipendente, che trova la sua espressione poetica in questa formula:

 

Quando questo è, questo è
Al sorgere di questo, quello sorge
Quando questo non è, questo non è
Al cessare di questo, quello cessa (SN 12.61).

 

Secondo questa dottrina, tutti i fenomeni (compreso il nostro «io») mancano di una natura fissa, intrinseca o essenziale, in altri termini ne sono «vuoti», e se analizzati possono essere scomposti in altri elementi o parti più semplici; inoltre, tutte le cose sono impermanenti, cioè sono il prodotto di cause e condizioni in continuo mutamento. Tutti i fenomeni insomma dipendono da altri fenomeni e da una coscienza che li percepisce. Anche se siamo spontaneamente portati a credere che le cose che sono oggetto della nostra percezione abbiano una loro esistenza intrinseca, la modalità secondo cui queste si presentano ai nostri sensi è ingannevole e contraddittoria rispetto alla loro reale modalità di esistenza.

 

Nel pensiero buddhista, in ultima analisi, il sé e tutti gli altri fenomeni non hanno una natura stabile e intrinseca, per quanto si possa anche scegliere di parlare del sé o degli oggetti in termini convenzionali. Il riferimento convenzionale e nominale al sé e agli altri oggetti, compresi gli Stati nazionali, tuttavia, ha un senso soltanto a patto di considerarli nel modo corretto, cioè come meri nomi che possono servire a scopi pratici e funzionali, e che grazie a un’approfondita analisi possono anche risultare utili alla comprensione della natura ultima delle cose. Ad esempio, in termini convenzionali un bollitore è un oggetto che serve per fare il tè, ma non è qualcosa che in senso ultimo ha una sua esistenza separata dalle sue parti costitutive (il manico, il beccuccio, ecc.) né dalla nostra designazione mentale dell’insieme di queste parti come «bollitore».

 

Secondo la dottrina buddhista dell’interdipendenza radicale, dunque, la presunta separazione tra sé e gli altri e tra soggetti e oggetti reali stabili, che sul piano ontologico è il punto di appoggio archimedeo (di ogni approccio realista liberale ma anche di certe visioni costruttiviste e critiche della politica in Occidente, è in definitiva un’idea errata, fuorviante. Secondo il buddhismo, questa presunta separazione è un’«illusione» frutto di «ignoranza» (della vera natura della realtà). Un paradigma sociale di matrice buddhista, piuttosto, muove necessariamente dalla verità fondamentale dell’interdipendenza e dell’impermanenza di tutta la realtà, compresi noi stessi (la dottrina del non sé). Sostiene la radicale interdipendenza tra gli individui, e tra gli esseri umani e i loro ambienti sociali e naturali.

 

Secondo il buddhismo, le conseguenze di questo fraintendimento della natura più profonda e radicalmente interdipendente della realtà possono essere gravi e di ampia portata. Si traducono in azioni problematiche (karma) che provocano una forte sofferenza. Aggrapparsi a un falso senso di indipendenza coltivando un desiderio di esistenza permanente ci mantiene invischiati in una sofferenza diffusa (samsara). Tutti i nostri problemi, insomma, compresi i problemi politici con la loro complessità, e tutte le conseguenze indesiderate delle nostre azioni derivano da una fondamentale incomprensione della radicale interdipendenza della realtà.

 

Questo errore ontologico fondamentale conduce a una reificazione del sé e degli oggetti di desiderio o avversione, nella convinzione che proteggere e custodire noi stessi e i nostri desideri e danneggiare e distruggere i nostri nemici e gli oggetti della nostra avversione ci procurerà sicurezza e felicità. Questa tendenza è ancora più marcata nelle collettività come gli Stati, le nazioni e le istituzioni, che sono proiezioni basate su una falsa premessa 5Macy 1979.

 

Paradossalmente, e direttamente in contrasto con le nostre credenze ordinarie, reificare il sé aggrappandosi al sé e agli oggetti, da una prospettiva buddhista, non porta felicità, ma solo discordia e insoddisfazione. Difendere l’autonomia e l’indipendenza del sé (il che presuppone inevitabilmente difendersi da un altro, da un estraneo), dal punto di vista buddhista, non contribuisce al benessere individuale o sociale. Al contrario, questo pensiero dualistico produce insoddisfazione, insicurezza personale, lotta incessante, conflitti e violenza. Portati alla loro logica conclusione, l’aggrapparsi a un sé autonomo e l’esaltazione dell’interesse personale sono le fonti della divisione sociale e politica e perpetuano i sistemi politici, compreso il nostro attuale sistema internazionale, che hanno creato minacce militari e ambientali capaci di portarci alla rovina.

 

L’ontologia buddhista dell’interdipendenza e dell’impermanenza offre un punto di partenza diverso nella sfera sociale/politica e in quella del benessere individuale, nonché una via d’uscita da questo dilemma. Il buddhismo rappresenta la base di una politica di interdipendenza radicale e, in ultima analisi, di quella che in termini buddhisti è detta «non paura», ovvero la cura equanime del benessere altrui. Questa impostazione presuppone che gli individui abbiano il potenziale per superare l’apparenza della dualità e accettare le possibilità creative e la responsabilità morale che derivano dall’impermanenza e da un’interdipendenza che non conosce limiti. Secondo il Buddha, la propria natura, se realizzata grazie all’addestramento della mente volto a comprendere la vera natura della realtà, fa sì che la nostra naturale disposizione di fondo non sia l’interesse personale, ma l’equanimità, l’altruismo e la cooperazione, perché prendersi cura in modo equo di tutti è un comportamento logico soltanto a patto di realizzare appieno la verità della nostra radicale interdipendenza. In senso buddhista, la natura umana racchiude l’essenza dell’illuminazione, di un essere completamente risvegliato, che in alcune scuole buddhiste è detta «natura di Buddha». Questa visione alternativa della natura umana è la seconda grande differenza tra le teorie sociali buddhiste e quelle del realismo, una differenza che deriva dalla prima e fondamentale divergenza: l’idea buddhista che la realtà nel suo complesso sia radicalmente interdipendente. Come vedremo nel paragrafo successivo, i nostri sistemi politici possono e devono offrire riscontro e sostegno ai singoli individui nel riconoscimento di questa verità fondamentale e nella realizzazione della loro natura fondamentale.

 

L’ontologia buddhista promuove la connessione con gli altri, non la separazione. Secondo questa logica, l’empatia (sentire in accordo con gli altri) è un elemento fondamentale della natura umana, e l’altruismo (agire a favore degli altri) e la cooperazione sono tratti comportamentali radicati, costituiscono la nostra natura fondamentale e priva di vincoli. «Che dire allora di tutti i cattivi comportamenti di cui siamo testimoni ogni giorno?», ci si potrà chiedere. La spiegazione offerta dal buddhismo è che la separatezza e l’egoismo sono il risultato di concezioni diffuse ma erronee, che si traducono in azioni negative – l’avidità (attrazione per oggetti che non sono come appaiono e non durano), la rabbia (avversione per questi falsi oggetti), il falso orgoglio e l’invidia – e quindi al conflitto e alla sofferenza. In questo senso, la logica buddhista non nega la prevalenza dei tratti più egoistici o conflittuali su cui insistono i realisti. Per contro, tuttavia, il buddhismo osserva che un orientamento egoistico e incentrato sulla paura non corrisponde alla natura fondamentale degli esseri umani e quindi, in ultima analisi, è un punto di partenza errato per progettare istituzioni e azioni politiche. Sebbene il buddhismo riconosca che gli individui possono comportarsi in modi egoistici o discordanti, questo comportamento è considerato il risultato di «contaminazioni fortuite», come fango nell’acqua. Poiché queste contaminazioni non fanno parte della vera natura umana, possono essere rimosse secondo gli insegnamenti, rivelando così una consapevolezza di fondo caratterizzata da chiarezza, altruismo, compassione e saggezza, come quella di un Buddha. Per i buddhisti, un orientamento innato all’empatia e all’altruismo è una possibilità concreta, perché si accorda con il modo in cui le cose esistono realmente, cioè in modo interdipendente: è un’opzione percorribile e attuabile.

 

In termini buddhisti, gli esseri umani si comportano in modo egoistico e spesso discordante solo se percepiscono erroneamente la vera natura della loro esistenza e sono preda di illusioni riguardo a sé stessi e alla realtà. Se gli individui rimangono aggrappati all’idea di un sé separato e contrapposto all’altro e a tutte le altre cose (la classica ontologia realista occidentale), arrivati al dunque agiranno prevalentemente in modo egoistico e non cooperativo. Dal punto di vista buddhista, le patologie individuali e sociali come la violenza e la distruttività, o semplicemente il prodursi di livelli non ottimali di cooperazione, sono fenomeni in ultima analisi legati a uno sforzo mal riposto di trovare certezza ed esclusività in un mondo indeterminato e interdipendente, e non sono un nostro tratto costitutivo. In questo senso, la fuorviante visione della dualità tra il mondo e il «noi» alimenta la nostra incessante insicurezza e le nostre paure, spingendoci ad acquisire potere e controllo sugli altri e sul nostro ambiente per preservarci.

 

L’ontologia buddhista propone un indirizzo paradigmatico che può dare il via a una riflessione su alcune possibilità sociali sostanzialmente diverse rispetto al realismo politico, che si basa su presupposti occidentali e cartesiani. La filosofia buddhista non aggira l’idea di un comportamento egoistico diffuso, ma considera questo comportamento non come la natura ultima degli esseri umani, bensì come una nostra scelta, sia pure maturata nell’illusione imperante del dualismo. Per i buddhisti, il pensiero dualistico basato su un sé e su oggetti indipendenti è una realtà artificiale che può essere decostruita, non tanto attraverso un’abile discussione filosofica, ma grazie a un duro lavoro di consapevolezza e meditazione che insegna a riconoscere e trasformare i propri pensieri, le proprie intenzioni e le proprie emozioni e i comportamenti che ne derivano.

 

Poiché nel buddhismo i sistemi politici riflettono necessariamente la mentalità degli individui che li compongono, come a dire che il nostro mondo attuale è l’espressione del karma collettivo dei suoi abitanti, il punto di partenza del lavoro necessario per organizzare una società più cooperativa è la trasformazione di sé stessi, per quanto anche il governo e il sistema internazionale possano strutturarsi in modo coerente con la saggezza fondamentale dell’interdipendenza radicale offrendo condizioni favorevoli al raggiungimento della vera natura degli esseri umani e di una felicità duratura. Questo genere di strutture sociali di supporto sono dette «condizioni favorevoli» nel buddhismo. I progetti sociali e politici buddhisti sono funzionali: non sono fini a sé stessi, ma sono un mezzo importante per sostenere il progresso degli individui lungo un percorso che culmina nella saggezza e nella trascendenza della sofferenza.

 

L’interdipendenza radicale come natura dell’esistenza si applica in egual misura ai diversi «livelli di analisi» nel campo delle relazioni internazionali (individuo, stato e sistemi statali), privilegiando il livello individuale come più originario. Gli Stati e il sistema statale sono la sintesi, la proiezione e l’istituzionalizzazione dei modi di pensare individuali, ovvero sono il frutto di un consenso intersoggettivo, come direbbero i costruttivisti. La natura di fondo dello Stato e del sistema statale dipende dagli individui che li compongono, posizione che rispecchia l’umanesimo di fondo tipico del buddhismo. Come abbiamo visto, questi sé individuali, a loro volta, non hanno un’essenza permanente. Gli individui, gli Stati e il sistema statale sono quindi tutti fenomeni mutevoli. Gli individui hanno la capacità di plasmare il carattere delle loro menti e, di conseguenza, delle loro istituzioni, come lo Stato e il sistema statale.

 

La pace e il progresso sociale, pertanto, dipendono in ultima analisi dall’individuo. A livello individuale, l’ontologia dell’interdipendenza radicale e del non sé comporta un’etica o un modo alternativo di stare al mondo. In primo luogo, questa visione promuove una riduzione dell’attaccamento al sé, scardinando così il presupposto di base della natura umana occidentale, vale a dire l’egoismo6Harvey 2000. Allontanarsi da un sé essenzialista in direzione dell’assenza di un sé comporta «una spinta verso l’imparzialità e l’impersonalità, una riduzione del divario tra le persone poiché la mia relazione con gli altri non è così significativamente diversa dalla mia relazione con il mio passato e il mio futuro»7Perrett 2002, 375. Concentrarsi maggiormente su un insieme di esperienze e meno su un sé immutabile, permette di vedere gli altri e noi stessi con maggiore equanimità. Grazie alla familiarità con il non sé, si sperimenta una riduzione delle preoccupazioni egoistiche e si riconosce che il perseguimento del proprio benessere non è fondamentalmente diverso dall’attenzione per il benessere degli altri. Operare in base a questa posizione ontologica significa che la nostra responsabilità nei confronti del nostro io futuro non si basa sull’egoismo, ma in gran parte su una logica pragmatica: siamo nella posizione ideale per incidere sul nostro benessere (e su quello dei nostri cari) e quindi dovremmo agire per promuovere il benessere (o ridurre la sofferenza) di coloro che possiamo aiutare al meglio. Inoltre, se non ci prendessimo cura di noi stessi, saremmo di poco aiuto agli «altri». Questa preoccupazione immediata, tuttavia, non intacca il nostro obbligo di evitare di danneggiare gli altri e di promuovere il loro benessere nella misura in cui ne siamo in grado. Il percorso buddhista per raggiungere questo livello di sviluppo personale si riassume in una condotta etica e nel plasmare i pensieri e le emozioni in modo da eliminare la negatività e sostituirla con pensieri ed emozioni positive (come la generosità e la compassione) attraverso la pratica della consapevolezza, della concentrazione e della meditazione. Queste stesse pratiche possono anche condurre a un «risveglio» alla saggezza che realizza in modo diretto l’interdipendenza radicale. Questa visione del mondo si oppone apertamente all’egoismo, alla separazione del sé dall’altro, alla paura, all’insicurezza, alla competizione, al dominio, al conflitto, alla violenza e alla vendetta che sono stati tradizionalmente considerati elementi naturali della politica realista e delle relazioni internazionali in Occidente. L’interdipendenza radicale, se realizzata, può invece generare un senso di connessione, comunità, tolleranza, responsabilità e, in ultima analisi, un senso universale di umanità e una maggiore volontà di trovare uno scopo comune, in accordo con il buddhismo. Quando gli individui sviluppano queste capacità, di riflesso, sviluppano istituzioni sociali più pacifiche e cooperative che, a loro volta, offrono supporto agli individui nelle loro ambizioni materiali e spirituali. Nel prossimo paragrafo esamineremo la natura delle istituzioni sociali e politiche previste dal buddhismo.

 

Il Buddha e la politica

I primi testi buddhisti affrontano diverse questioni politiche e internazionali. Se lo scopo principale degli insegnamenti del Buddha è la liberazione del singolo individuo da una sofferenza che pervade ogni aspetto della vita, i suoi insegnamenti danno anche conto dell’interdipendenza dell’individuo con la società e la politica. E cercano di strutturare queste relazioni in modo costruttivo. Un aspetto del pensiero del Buddha ampiamente sconosciuto in Occidente è la sua filosofia politica, originale e articolata, per di più razionalista, umanista e democratica. Tra gli insegnamenti sociali e politici del Buddha possiamo ricordare il rifiuto dell’ordine sociale gerarchico prevalente del suo tempo e l’affermazione dell’uguaglianza degli individui; l’appello alla ragione umana e al pragmatismo per risolvere i problemi del mondo duemila anni prima dell’Illuminismo; la proposta di una teoria contrattuale dello Stato duemila anni prima di Hobbes, Locke e Rousseau; l’applicazione di un modello di democrazia egualitaria, istituzionalizzata e deliberativa nel suo ordine di monaci e monache un secolo prima delle origini della democrazia occidentale; l’idea di una federazione di Stati legati da un’affinità di valori condivisi per mantenere la pace a livello internazionale due millenni prima del famoso saggio di Kant sulla pace perpetua; e l’impegno per una crescita economica sostenibile dal punto di vista ambientale secoli prima che questa idea si affermasse in Occidente.

 

Quali sono gli elementi essenziali della visione normativa del Buddha sulla politica? Il Buddha vedeva la politica non come un fine in sé, ma come uno strumento che poteva creare condizioni favorevoli oppure ostacoli dannosi per il progresso personale degli individui. Riconosceva che il governo è un elemento necessario per garantire l’ordine e il benessere sociale e che i suoi valori, i suoi temi e i suoi processi dovrebbero essere coerenti con il «Dharma». Il termine «Dharma» ha molti significati, ma in questo caso si riferisce agli insegnamenti del Buddha e alla loro realizzazione, presentati come leggi universali o naturali, ad esempio la legge dell’originazione interdipendente e la sofferenza che deriva dall’ignoranza di questa verità fondamentale. Queste leggi non sono creazioni del Buddha, sono valide con o senza di lui, ma il Buddha ha realizzato queste verità, ha rivelato queste leggi e ci ha raccomandato di esaminarle e di agire di conseguenza; non per fede cieca, ma attraverso un processo di valutazione razionale, critica, contestuale e abile. Un sistema politico organizzato in modo coerente con queste verità fondamentali ridurrebbe al minimo le forme manifeste di sofferenza per tutti i membri della società – soprattutto per quelli meno fortunati, la cui sofferenza visibile è maggiore – svolgendo un ruolo positivo nel raggiungimento di forme più elevate di benessere individuale.

 

Cosa significa che per essere legittime, le pratiche politiche devono essere coerenti con il Dharma? Un principio fondamentale del Dharma in ambito politico è l’uguaglianza e la dignità di tutti gli individui. Il Buddha ha insistito sul fatto che tutti gli esseri umani hanno un valore intrinseco e la capacità di raggiungere l’illuminazione, la cosiddetta «natura di Buddha». In contrasto con gli insegnamenti dei bramini, il Buddha rifiutò il sistema delle caste sostenendo che nella società le virtù sono distribuite in modo equo, e non secondo una scala gerarchica. Il Buddha osserva che: «Ora, poiché sia le qualità oscure che quelle luminose, quelle biasimate e quelle lodate dai saggi, sono sparse indistintamente tra le quattro caste, i saggi non riconoscono come vera l’opinione secondo cui la casta dei bramini sarebbe la più elevata … [chiunque può] emanciparsi… in virtù del Dharma»8DN, 27. Il Dharma è uguale per tutti, indipendentemente dalla classe, dallo status sociale, dal sesso o dalle condizioni economiche. Poiché i cittadini e i governanti sono uguali sotto la legge del Dharma, le istituzioni politiche dovrebbero ispirarsi a questa verità fondamentale. Per l’epoca, si trattava di una visione sociale davvero rivoluzionaria.

 

Gli insegnamenti del Buddha si ispirano al principio dell’uguaglianza anche quando osserva che la monarchia, la forma di governo più diffusa nella sua epoca, dovrebbe basarsi sul consenso popolare (non sul diritto divino) e sulla consultazione dei governati, e dovrebbe essere equa nell’applicazione della giustizia e conforme al Dharma. Quanto alla democrazia, che è la forma di governo fondata sull’uguaglianza, la stessa creatura politica del Buddha, il sangha (l’ordine dei monaci e delle monache), è governata da una rigorosa uguaglianza riguardo ai requisiti di ammissione, partecipazione, amministrazione e risoluzione delle controversie.

 

In base all’uguaglianza e alla bontà ultima di ogni individuo (e dato che tutti soffrono), il Buddha insegna che ciascuno è degno della nostra compassione e, come minimo, non dovrebbe essere ricevere un danno dallo Stato. La nonviolenza o il non nuocere (ahimsa) è un corollario naturale degli insegnamenti del Buddha sull’uguaglianza del potenziale umano, e costituisce la base della protezione dei diritti individuali. L’esempio forse più immediato dell’applicazione politica di questo principio è il ripetuto ammonimento del Buddha che un governante giusto deve seguire i precetti etici di non uccidere, non rubare, non mentire, ecc. Più in positivo, un buon leader deve mostrare compassione e cura attraverso le pratiche della gentilezza, dell’equanimità, della pazienza e della generosità. La non violenza e l’uguaglianza sono i fondamenti della giustizia sociale buddhista, come anche l’idea secondo cui un buon governo presuppone il rispetto di un vincolo morale e legale contro l’uso arbitrario del potere.

 

La terza caratteristica degli insegnamenti politici del Buddha è la tolleranza per i diversi regimi politici e un approccio pragmatico e non dottrinale alle questioni politiche. Piuttosto che appoggiare apertamente una particolare forma di governo, il Buddha, nel mostrare amicizia e dare consigli a democrazie e monarchie, mostra che il buon governo può assumere più di una forma, a patto però di realizzare le condizioni per la massima felicità individuale dei cittadini. In questo senso, vari tipi di regimi politici possono essere considerati legittimi, a condizione che lo spirito dei governanti e dei governati sia in accordo con il Dharma.

 

Comunque sia, il Buddha mostra esplicitamente di preferire le forme di governo democratiche e rappresentative. Nei suoi insegnamenti e nelle sue linee guida, il Buddha sostiene principi democratici come la partecipazione dei cittadini e la libera espressione delle opinioni; la deliberazione, la consultazione e la costruzione del consenso; il voto e il rispetto del consenso popolare; la trasparenza attraverso incontri diretti e dibattiti pubblici; il primato dello Stato di diritto e la definizione dei limiti del governo. Questa predilezione traspare nell’approvazione dei principi democratici nei sutra (insegnamenti) e nell’applicazione di questi stessi principi nelle regole che governano la collettività dei monaci e delle monache, raccolte nel Vinaya. Gli insegnamenti del Buddha hanno un rilievo immediato per la politica contemporanea e sono compatibili con il governo di un moderno Stato democratico. In questo senso, costituiscono un parallelo rispetto al pensiero democratico liberale occidentale, incentrato sull’uguaglianza dei diritti, sulla protezione dalla tirannia attraverso l’uguaglianza davanti alla legge, e sul governo partecipativo e deliberativo.

 

La principale differenza tra la democrazia «dharmica» e la democrazia liberale occidentale riguarda il fatto che il buddhismo pone l’accento tanto sui diritti individuali quanto sui doveri individuali verso gli altri, doveri che vanno oltre il rispetto della legge. Mentre la democrazia liberale ha poco da dire sulle qualità morali costitutive del buon governo, al di là dei valori delle pari opportunità e della protezione delle scelte individuali, concentrandosi più sulla dimensione processuale del buon governo che non sulla sua sostanza9Garfield 2001, la «democrazia dharmica» stabilisce un chiaro dovere di cura nei confronti degli altri e anche del mondo naturale. Fondamentalmente, nella democrazia dharmica gli individui hanno il dovere non solo di evitare di limitare le libertà altrui, ma anche di sforzarsi di sviluppare un senso di responsabilità e preoccupazione universale per tutti gli esseri umani e per il mondo naturale. Pur trattandosi di una responsabilità di tutti, le istituzioni politiche e i leader sono chiamati a riflettere su questi principi, in modo che la politica ne incoraggi la diffusione e l’applicazione. La centralità della responsabilità e dei diritti deriva essenzialmente dall’ontologia dell’originazione interdipendente e da una teoria della causalità secondo cui le nostre vite non sono separate ma profondamente interdipendenti. Lo scrittore e monaco buddhista contemporaneo Thich Nhat Hanh ha colto questa differenza nel contesto statunitense osservando: «Sulla East Coast c’è la Statua della Libertà. Penso che sulla West Coast andrebbe eretta una Statua della Responsabilità, per controbilanciare questa Libertà. La libertà senza responsabilità non è vera libertà»10Hanh 2006, 137. «Libertà» nel pensiero buddhista significa libertà dalle catene dell’ignoranza dell’attaccamento al sé, non il perseguimento senza freni dell’interesse personale.

 

Il Buddha sulle relazioni internazionali e sullo Stato

La concezione buddhista della politica come servizio per il bene comune si estende alla sfera internazionale, ambito in cui la nostra umanità e la nostra fondamentale interdipendenza trascendono in ultima analisi le barriere nazionali, razziali ecc., che in quest’ottica vanno intese tutt’al più come distinzioni convenzionali. Questo non significa che in una prospettiva buddhista lo Stato debba progressivamente venir meno. Gli Stati, Non diversamente dalla designazione convenzionale del «sé» come entità individuale distinta, anche gli Stati possono funzionare efficacemente a patto di riconoscere che si tratta di realtà che hanno una natura puramente formale, funzionale e dipendente, guardandosi dal provare attaccamento per queste manifestazioni come se fossero intrinsecamente reali. Gli Stati possono avere l’importante funzione di offrire equamente accesso ai beni pubblici. Allo stesso modo, un sistema di Stati che riconoscono gli stessi valori può «esistere» e funzionare efficacemente, a patto di riconoscere la natura più profonda e interconnessa di tutte le cose, senza perderla di vista.

 

Una concezione buddhista dello Stato, in questo senso, è un’estensione internazionale dei principi politici ed economici buddhisti di uguaglianza, armonia, benessere sociale, nonviolenza, conciliazione e scambio commerciale reciprocamente vantaggioso che, come abbiamo visto, costituiscono i princìpi guida di un governo in accordo con il Dharma, ispirato a quella che in alcune pagine del canone buddhista viene chiamata «rettitudine». Il tema dello Stato ricorre in particolare in alcune parabole del Buddha in cui si fa riferimento all’idea di un sovrano mondiale (cakkavatti in pāli, cakravartin in sanscrito), modello di leadership nel sistema statuale internazionale. Il cakkavatti è un Buddha minore o mondano che provvede al benessere materiale (più che a quello spirituale) dell’umanità. Con l’esempio e la generosità (non con la conquista violenta), questo governante (un singolo individuo o un corpo rappresentativo) istituisce un governo ideale con il consenso dei governati, parte di una serie di Stati simili, democratici e costituzionali, basati su principi condivisi. Questa rete di Stati ideali può dunque costituire un sistema politico internazionale orientato agli interessi della pace e della prosperità mondiale. Possiamo rilevare alcuni parallelismi con la visione kantiana di una pace perpetua tra Stati rappresentativi che condividono gli stessi valori, a dispetto del dualismo di fondo dell’ontologia di Kant, e con idee articolate nella riflessione occidentale moderna sulle relazioni internazionali, come la teoria della pace democratica, e le nozioni di «società internazionale» e di un cosmopolitismo ispirato al principio del «non nuocere».

 

Il punto di partenza di una visione buddhista delle relazioni internazionali è l’istituzione di uno Stato retto, governato con il consenso dei governati con politiche coerenti con il Dharma. Questo governo opera per l’interesse del suo popolo con attenzione, giustizia imparziale e tolleranza, promuovendo equamente il benessere materiale e spirituale dei membri della società. In termini moderni, il modello di riferimento sarebbe una socialdemocrazia illuminata che garantisce libertà e sicurezza economica e promuove l’uguaglianza, la tolleranza e l’attenzione per i suoi cittadini11Jayatilleke 1967. Col tempo, questo modello si estenderebbe spontaneamente, per contagio, ovvero «percorrendo» il mondo, secondo l’immagine buddhista della «ruota del Dharma», così come il Buddha dopo l’illuminazione ha messo in moto la ruota dell’insegnamento nella sfera spirituale. Gli altri paesi vedrebbero dunque, a loro volta, la fondazione Stati simili con principi di governo analoghi e costituzioni adatte alle loro culture. Il sistema internazionale non sarebbe dunque un impero centralizzato, ma una costellazione di Stati che ruotano attorno a un’entità archetipica12Tambiah 1976.

 

Nei rapporti con gli altri Stati non sono ammesse ostilità e aggressione, mentre sono incoraggiate le pratiche della cordialità, del buon vicinato e del commercio reciprocamente vantaggioso, sia per conformità al Dharma sia per motivi di convenienza ed efficacia, nel senso che nel lungo periodo una politica di aggressione si rivela controproducente. Come dice il Buddha, «L’odio non può sconfiggere l’odio, / solo esser pronti all’amore lo può. Questa è la legge eterna»13Dhp. 5. Uno Stato può mantenere il proprio esercito a scopo difensivo, ma si ritiene che la nonviolenza sia l’ideale più elevato e il Buddha consiglia di non ricorrere alla guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali14King 2013. Il primo principio etico del buddhismo è astenersi dall’uccidere o ferire qualsiasi essere senziente. La «guerra giusta» non è ammessa in senso pressoché assoluto15Jerryson 2013; Jayasuriya 2009. Secondo il Buddha, infatti, le guerre non fanno altro che perpetuare i conflitti.

 

In sintesi, negli affari esteri lo Stato ha un obbligo di non aggressione e di cooperazione con gli altri Stati in uno spirito di amicizia e di uguaglianza per il bene comune dell’umanità. Come tutti i consigli del Buddha, questo ammonimento offre benefici pratici: si tratta sia di rafforzare il singolo Stato sia di sviluppare i legami comuni dell’umanità, che portano frutti nella pace e nella prosperità internazionale. La dottrina politica del Buddha sull’uguaglianza, la democrazia, la sovranità popolare e le istituzioni politiche che servono il bene comune sul piano materiale e spirituale trovano il loro compimento finale in una rete mondiale di Stati che agiscono ciascuno secondo questi principi. In questo senso, nel buddhismo gli Stati possono esistere, ma non sono altro che artefatti a beneficio di una più ampia umanità.

 

Implicazioni riguardo alle questioni aperte del contemporaneo

Una teoria sociale buddhista deve necessariamente basarsi sulla dottrina dell’interdipendenza radicale, incentrata sulle responsabilità dell’individuo nei confronti degli altri e non solo sulla promozione della scelta individuale e dell’interesse personale. L’elemento saliente nella visione sociale del Buddha è il dovere di cura che abbiamo nei confronti degli altri e del nostro ambiente naturale e sociale. Questa preminenza si riflette innanzi tutto nei principi del non nuocere, di non aggressione e di uguaglianza, e costituisce idealmente il fondamento di un’etica di compassione universale. Sul piano della politica nazionale, questo orientamento politico potrebbe tradursi, ad esempio, nella promozione della democrazia con un’uguale richiamo alle libertà individuali e alla responsabilità sociale e ambientale. In questo senso, i sistemi politici devono trovare consapevolmente un equilibrio tra l’indipendenza e l’interdipendenza degli individui nella società, posto che secondo un’ottica di interdipendenza radicale l’odierna esaltazione dell’individualismo non riflette la realtà. La politica, nel buddhismo, non è separata dall’etica ed è incentrata sulle virtù civiche. La politica, insomma, deve essere espressione dei valori e delle aspirazioni della società, in particolare il valore politico dell’uguaglianza partecipativa e quello giuridico dell’uguaglianza di fronte alla legge. Oltre all’imparzialità, la politica deve anche riflettere principi etici come l’onestà e la trasparenza, la generosità, il non nuocere, la tolleranza, l’empatia e la disponibilità al compromesso. Sul piano internazionale, un approccio buddhista dovrebbe anche prevedere iniziative capaci di contribuire allo sviluppo di un più profondo riconoscimento della nostra comune umanità e dell’uguaglianza rispetto al particolarismo e al nazionalismo.

 

In una prospettiva buddhista, questi «obblighi» di prendersi cura degli altri intesi in senso lato, sia all’interno della nazione che fuori, non vanno visti come un’imposizione, un limite della libertà individuale o una negazione delle identità culturali, ma come un’opportunità per trovare la felicità e la realizzazione, trascendendo il perseguimento dei desideri personali o del vantaggio del proprio gruppo, e realizzando così una libertà vera, cioè la libertà da un interesse esclusivamente rivolto a se stessi o alla propria nazione. Questa concezione alternativa della realtà sociale è coerente con la visione buddhista della vera realtà delle cose (interdipendenza) e rispecchia la natura umana, considerata essenzialmente altruista. Dal punto di vista buddhista, la separatezza, l’insicurezza e la paura che costituiscono il punto di partenza del pensiero sociale occidentale non si basano sulla verità, ma sull’ignoranza. Poiché questa visione illusoria di sé e del mondo è ampiamente diffusa, per affrontare il problema occorre, per così dire, «liberare la mente». In termini buddhisti, questo impegno a favore di noi stessi e degli altri si chiama «perfezione dello sforzo». Con lo sforzo si ottiene tutto.

 

La visione buddista della politica è strumentale, pragmatica e fondamentalmente flessibile, nel senso che è aperta alla diversità dei modelli culturalmente appropriati di applicazione dei principi sociali fondamentali. In Oriente, il buddhismo ha plasmato società diverse come quella indiana e quella cinese, ed è ragionevole pensare che la sua visione della società possa trovare applicazione anche nella teoria e nella pratica sociale occidentale.

 

A dispetto delle differenze che lo distinguono dalle visioni della politica predominanti in Occidente, quello buddhista non è un approccio fondamentalmente estraneo. Benché il Buddhismo abbia origini antiche e una matrice «orientale», le sue basi sono universalistiche, non particolaristiche: la sofferenza, ad esempio, è una condizione umana in generale, così come il potenziale di liberazione. Inoltre, come abbiamo visto, molte idee buddhiste trovano riscontro in quelle dell’Illuminismo occidentale, oltre che nei principi democratici moderni dello stato sociale, dell’internazionalismo liberale, della società internazionale e dell’etica cosmopolita. Quanto abbiamo detto qui va dunque visto come una presentazione di questo modello orientale nel quadro della visione occidentale delle relazioni internazionali, con la consapevolezza dei tanti elementi di convergenza, e con l’auspicio che chi si interessa allo sviluppo di una politica di liberazione umana possa continuare il dialogo.

 

Il buddhismo offre un insieme di principi specifici nell’ambito del rapporto con noi stessi e con gli altri, e con tutte le cose. Raccomanda lo sviluppo di istituzioni e misure politiche ispirate a una verità ontologica ultima di interdipendenza radicale e alle responsabilità etiche che può assumersi una mente aperta alla pratica. Come ricorda Einstein, «nessun problema può essere risolto dalla stessa coscienza che lo ha creato». Un approccio buddhista alle questioni internazionali di oggi offre nella sua dimensione più profonda un modo innovativo, eppure antico, di vedere il mondo sociale e naturale, le nostre responsabilità etiche e «noi stessi».

 

Riferimenti bibliografici

Carr, Edward Hallett. 1964. The Twenty Years’ Crisis, 1919-1939. New York: Harper Torchbooks.

Chakravarti, Uma. 1987. The Social Dimensions of Early Buddhism. Delhi: Oxford University Press.
Dhp. 2007.

Garfield, Jay. 2001. «Buddhism and Democracy». The Proceedings of the 20th World Congress of Philosophy 12: 157–172.

Hanh, Thich Nhat. 2006. «We Have the Compassion and Understanding Necessary to Heal the World». In Mindful

Politics, ed. Melvin McLeod, 129–138. Boston: Wisdom Publications.

Harris, Ian (ed.). 1999. Buddhism and Politics in Twentieth Century Asia. London: Continuum.

Harvey, Peter. 2000. An Introduction to Buddhist Ethics. Cambridge: Cambridge University Press.

Jayatilleke, Kulatissa. 1967. “Buddhism and International Law». The Principles of International Law in Buddhism 120: 534–563.

Macy, Joanna Rogers. 1979. «Dependent Co-Arising: The Distinctiveness of Buddhist Ethics». Journal of Religious Ethics 7 (1): 38–52.

Morgenthau, Hans. 1948. Politics Among Nations. New York: McGraw Hill.

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Tambiah, S.J. 1976. World Conqueror and World Renouncer. Cambridge: Cambridge University Press.

von Clausewitz, Carl. 2017. Della Guerra. Milano: Mondadori.

Idee

  • Docente presso il Dipartimento di Scienze politiche della Georgia State University, dal 2011 al 2016 è stato decano del College of Arts and Sciences della Georgia State e direttore della Sam Nunn School of International Affairs presso il Georgia Institute of Technology per dieci anni. I suoi studi riguardano la cooperazione internazionale e la risoluzione dei conflitti, l'economia politica internazionale, il rapporto tra religione e politica, e la teoria politica comparata. È autore di sei libri e numerosi articoli e ha ricevuto premi per la ricerca e l'insegnamento dallo United States Institute of Peace, dal Council on Foreign Relations, dalle Fondazioni Hewlett, Pew, Sloan e MacArthur, dalla Commissione Fulbright, dal Dipartimento dell'istruzione degli Stati Uniti e dalla Commissione Europea.

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