Nell’introduzione a Elaborations on Emptiness (1996), Donald S. Lopez, Jr. racconta la storia giapponese di Miminashi Hōichi, un menestrello cieco che sapeva recitare a memoria l’opera epica del XIII secolo Heike Monogatari (una cronaca che supera le ottocento pagine nella traduzione inglese), accompagnandosi al suono del suo biwa. Un giorno il giovane fu avvicinato dal servitore di un Signore, il quale gli chiese di poter ascoltare una sua esecuzione dell’episodio conclusivo della saga, quello in cui l’ultimo samurai del clan degli Heike viene giustiziato — un passaggio che da solo richiedeva sette notti di recitazione. Le prime sei esibizioni furono un grande successo, ma prima dell’ultima si scoprì che il cantastorie cieco era rimasto vittima di un inganno: di sera non si era mai recato in quella che credeva fosse la dimora di un nobile, bensì in un cimitero deserto dove gli spettri del clan degli Heike avevano ascoltato la dolorosa storia della loro scomparsa. Come Sherazade nelle Mille e una notte, che doveva seguitare a raccontare storie per rimanere in vita, il ragazzo comprese che, non appena avesse concluso il suo racconto, anche lui sarebbe morto. Per salvarlo, i monaci del tempio presso cui viveva gli trascrissero su tutto il corpo il testo del Sūtra del Cuore buddhista, così da renderlo invisibile ai fantasmi, ma si scordarono delle orecchie. Quella notte, lo spettro del samurai gliele recise, lasciando al loro posto soltanto due buchi: fu così che, dal quel momento in poi, il bardo cieco fu conosciuto da tutti come Miminashi Hōichi — Hōichi il senza orecchie.

È difficile trovare una morale in questa scena raccapricciante. Eppure, essa riflette una credenza riguardante i sūtra e più in generale altri testi del buddhismo Mahāyāna, quella secondo cui il significato delle loro parole sarebbe importante quanto l’effetto che queste hanno su chi le pronuncia: offrire protezione tramite l’invocazione apotropaica e concedere l’illuminazione. “Era opinione condivisa da molti eruditi buddhisti” scrive Claudia Marra in merito al buddhismo giapponese, “che i sūtra recitati con fede, anche se non compresi, potevano condurre infine all’illuminazione, perché la lingua in cui erano scritti aveva da sola il potere di squarciare il velo delle illusioni e illuminare il fedele”. Il climax truculento della storia di Miminashi Hōichi potrebbe dunque esprimere — in termini sia testuali sia metaforici — non solo il potere della lingua sacra di agire come una corazza protettiva, ma anche il tema centrale del Sūtra del Cuore: smascherare la natura illusoria della percezione e della conoscenza stessa.
Ma se i testi magici del buddhismo Mahāyāna acquistano efficacia tramite la recitazione, dobbiamo allora concludere che alle persone analfabete prive dell’eccezionale memoria linguistica di Hōichi sia preclusa l’illuminazione? Per rispondere a questo interrogativo è doveroso fare qualche precisazione sull’alfabetizzazione e sulla lingua in Giappone. Nell’era premoderna e all’inizio dell’era moderna, la corretta recitazione delle scritture buddhiste dava grandi opportunità; già nel XII secolo erano state fissate rigide regole di pronuncia e in quello successivo la salmodia dei sūtra (dokyō) era diventata una forma d’arte a tutti gli effetti. Charlotte Eubanks cita a tale proposito la storia dell’imperatore Goshirakawa, che pare diede alle fiamme un’ala del palazzo imperiale dopo aver pronunciato in modo scorretto “un solo carattere del Sūtra del Loto”.
Questo per dire che, anche per le persone istruite, le scritture buddhiste potevano presentarsi come vasti corpus di alternanze linguistiche e di calchi. Innanzitutto, quasi tutti i canoni dei testi sacri buddhisti redatti in Asia orientale — chiamati Tripitaka e venerati dai praticanti in Corea, Vietnam e Giappone — sono stati scritti per lungo tempo in cinese classico. Ammesso anche di saper leggere il Tripitaka in questa lingua, Greg Wilkinson osserva come l’assenza di punteggiatura nel canone, le caratteristiche tonali del cinese e la presenza della traslitterazione sanscrita ne rendano “molto difficile la comprensione a un lettore giapponese che non abbia una specifica conoscenza e una lunga pratica”. E quasi altrettanto difficile sarà per lui recitarlo con la pronuncia ‘corretta’, data la grande varietà di dialetti e lingue vernacolari esistenti nell’arcipelago nipponico.
Per ovviare a questi problemi, nel XVII secolo i tipografi giapponesi iniziarono a ideare un tipo di libro appositamente pensato per le persone analfabete, che consentiva loro di recitare i sūtra e altre preghiere devozionali senza conoscere alcuna lingua scritta. Questi testi funzionano secondo il principio del rebus (detto hanjimono), per cui ogni immagine disegnata, quando viene nominata ad alta voce, suona come una sillaba cinese, un po’ come la sequenza di emoji 👁 🅰️ ◀️ 🚍 si avvicina foneticamente alla frase inglese ‘I read a rebus’ (Ho letto un rebus; ‘I’ + ‘readA’ + ‘re’ + ‘bus’). Un primo famoso esempio di Sūtra del Cuore per gli analfabeti fu riprodotto dal medico, studioso e viaggiatore Tachibana Nankei (1753-1805) nel suo Tōzai yūki (Travelogue of East and West nella traduzione inglese), pubblicato nel 1795.
Dal momento che questi testi venivano spesso utilizzati nelle regioni rurali agricole, i pittogrammi scelti attingevano al vissuto dei loro ‘lettori’: attrezzi da lavoro e risicoltura (setacci, seghe, risaie), animali domestici e selvatici (dai topi alle scimmie) e immagini legate alla fertilità, alla gravidanza, alla malattia e alla morte. “Gli abitanti dei villaggi, decodificando queste figure e riproducendone il significato a voce nel dialetto del luogo”, scrive Eubanks, “emettevano in tal modo suoni simili a quelli pronunciati dai dotti chierici”. Oltre a ciò, il potere incantatore e magico attribuito a un insegnamento esoterico, espresso in un linguaggio quasi incomprensibile, associava suoni e promesse di benefici spirituali al dominio visivo della vita quotidiana.
Il testo in forma di rebus con cui si apre questo blog, custodito presso la British Library, risale all’inizio del XX secolo, a riprova dell’importanza, mai venuta meno, di questa tecnica di lettura anche nel Giappone in via di modernizzazione. Mentre la British Library lo cataloga come un’edizione del Sūtra del Cuore (Hannya shingyō), la Library of Congress, che possiede una copia dello stesso testo, lo identifica come “Inno in lode di Kannon per gli analfabeti” (Kannon mekura wasan). Sebbene il bodhisattva Kannon (Avalokiteśvara), incarnazione della compassione, dispensi effettivamente insegnamenti nel Sūtra del Cuore, l’inno (wasan) in questione è diverso da questo e dagli altri sūtra resi attraverso il principio del rebus, come il Sūtra del Loto.
A questo link si possono scorrere le pagine di un’edizione più antica (1800 circa) del Sūtra del Cuore per gli analfabeti, fornita per gentile concessione del Williams College. In materia di testi religiosi a rebus è possibile consultare anche una Bibbia pittografica del 1908 per bambini.