Dovendo descrivere, da insegnante, il punto di vista delle varie tradizioni religiose presenti in Asia, ogni giorno sono costretta a osservare, interpretare e spiegare il modo di pensare di una cultura a persone la cui mente è stata plasmata da una visione del mondo appartenente a una cultura diversa. Nel mettere in atto questo processo, uno dei compiti più importanti è scegliere dei testi che facciano da ponte fra un modo di vedere tipicamente (e genericamente) americano e una prospettiva di volta in volta indiana, cinese o giapponese. A tale scopo, sono sempre alla ricerca di scritti capaci di creare connessioni sufficientemente chiare da permettere a un lettore americano di comprendere nuovi modelli, pur conservando scrupolosamente l’integrità delle concezioni asiatiche originarie.
Tuttavia, in questi dodici anni di continua ricerca a volte ho scoperto degli scritti che, con la pretesa di esporre una prospettiva asiatica, offrono invece qualcosa di più coerente con i valori culturali, se non religiosi, dell’autore. Questi scritti creano in apparenza dei ponti e delle connessioni, ma di fatto sovrappongono la propria visione del mondo e una cultura ben definita a quella di una particolare tradizione presente in Asia. Spesso una prospettiva squisitamente indiana o cinese viene sottilmente riplasmata come variante di un modello giudaico-cristiano, che appare plausibile e persino affascinante, ma non ha più nulla di indiano o di cinese. Inoltre, siccome queste prospettive «asiatiche» reinventate hanno qualcosa di familiare, il lettore americano trova questi scritti «chiari» e «facilmente comprensibili»; autore e lettore sono indotti a credere di essersi formati un’idea precisa di quella che è la percezione buddhista o hindu.
Per quanto io ritenga inquietante la popolarità di queste opere come strumenti di diffusione del pensiero asiatico presso un grande pubblico di lettori, ciò che più mi preoccupa è il loro utilizzo nei corsi di introduzione alle religioni asiatiche (o mondiali) che si tengono in college e licei, perché contengono una quantità tale di terminologia e di immagini della tradizione asiatica da risultare avvincenti e persuasivi, pur mancando di un solido radicamento in quella stessa tradizione.
Una di queste opere è Siddharta di Hermann Hesse, a volte usato per introdurre gli studenti al pensiero buddhista indiano. Voglio sottolineare che Siddharta diventa un problema solo quando viene usato come specchio del buddhismo indiano, non come una narrazione che riflette il conflitto interiore di Hesse nel suo tentativo di capire la propria vita come processo spirituale. I problemi sorgono quando Siddharta viene tolto dal suo contesto europeo, e più precisamente il protestantesimo tedesco, per essere usato come presentazione del pensiero buddhista indiano, perché molti dei concetti fondamentali della tradizione buddhista vengono oscurati, se non completamente ribaltati.
Una volta che il modello Siddharta viene radicato nella mente di studenti intellettualmente curiosi ed entusiasti, leggere e capire i testi basilari del buddhismo, o interpretazioni e commenti più autentici, diventa più difficile, perché in questi testi vengono descritti modelli contraddittori. Studiare i modelli di pensiero e di percezione di una cultura diversa dalla propria dovrebbe come minimo provocare uno strano effetto, se non altro di disorientamento. Ma la descrizione che fa Hesse dei modi di pensare indiani scorre senza fatica nel nostro sistema culturale – influenzato, come lo è il pensiero intellettuale americano, dalla letteratura e dalla filosofia europea. Una volta che la visione del mondo «buddhista indiana» di Hermann Hesse ci è stata resa così confortevole grazie alle pagine di Siddharta, leggere Aśvaghoṣa, Nāgārjuna o Vimalakīrti e riconciliare la loro visione con quella del Siddharta di Hesse diventa qualcosa di molto difficile. Per i giovani americani che studiano il Buddhismo, è più semplice immedesimarsi con l’approccio amorevole del Siddharta di Hesse che con quello decisamente più rigoroso di Siddhārta Gautama, l’asceta indiano vissuto nel quinto secolo avanti Cristo.
Trattare il Siddharta di Hesse come una figura buddhista paradigmatica non solo travisa la natura della pratica buddhista, ma rende di conseguenza più difficile cogliere le vere differenze di prospettiva culturale che ci sono nella visione monoteista euro-americana di quegli studenti e in quella della cultura buddhista indiana. Se accettiamo il Siddharta di Hesse come un esempio genuino del pensiero e della pratica del Buddhismo indiano, subiamo impropriamente la visione del mondo propria del sistema culturale dell’autore, e i naturali pregiudizi che l’accompagnano – così come il sistema culturale degli studenti americani che lo leggono.
Hesse, Siddharta e il Buddha: come distinguere l’uno dall’altro
Il nonno di Hermann Hesse era stato missionario in India per trent’anni, e Hesse ha scritto di essere stato profondamente influenzato fin da bambino dai suoi racconti. In conseguenza di questa fascinazione infantile, nel 1911 Hesse viaggiò in India e in altri paesi dell’Asia, dando poi conto di queste esperienze in diversi libri1Bilderbuch venne pubblicato nel 1926 e Aus Indien nel 1913.. Il romanzo Siddharta venne pubblicato nel 1922, dopo quattro anni di scrittura e di continua rielaborazione.
I diari di Hesse ci danno un’idea delle impressioni che l’autore portò con sé dall’India e che contribuirono a dare forma a quel romanzo:
Arriviamo nel Sud e nell’Est carichi di aspettative, guidati da un’oscura e piacevole premonizione di casa, e scopriamo qui un paradiso, l’abbondanza e la voluttuosità di tutti i doni della natura. Incontriamo i puri, semplici, fanciulleschi abitanti di questo paradiso. Ma noi siamo diversi; qui siamo stranieri e privi di ogni diritto di cittadinanza; abbiamo perso il nostro paradiso tanto tempo fa, e quello nuovo che desideriamo creare non lo troveremo lungo l’equatore e nei caldi mari dell’Est. Perché sta dentro di noi e nel futuro del nostro nord2Anna Otten, Hesse Companion, University of New Mexico Press, Albuquerque, New Mexico 1977, p. 73. Otten cita da Aus Indien, ma osserva che gran parte del testo venne ripreso in Bilderbuch.
Dopo aver letto le riflessioni di Hesse, la curatrice di Hesse Companion, Anna Otten, nota: «Non è una sorpresa che Hesse abbia iniziato a scrivere un romanzo sull’India; [ma] per lo stesso motivo sarebbe ingenuo leggerlo come un’incarnazione o un’esegesi della filosofia indiana»3Ibid. pp. 74-75.. Eppure lettori meno informati di Otten spesso non riconoscono che Hesse ha scritto innanzitutto dei suoi conflitti interiori e che ha utilizzato la sua conoscenza del pensiero indiano solo per dare una cornice alla sua esplorazione interiore.
La pittoresca e imbarazzante omogeneizzazione degli indiani d’Asia che fa Hesse, descrivendoli come «puri, semplici, fanciulleschi abitanti di questo paradiso», si accompagna a una comprensione non meno superficiale della tradizione buddhista. Otten cita un brano del diario di Hesse, scritto nel 1920, che ben documenta i suoi sentimenti nei confronti del Buddhismo:
Il mio interesse per l’India, che dura da quasi vent’anni e ha attraversato diverse fasi, mi sembra ora avere raggiunto un nuovo punto di sviluppo… ora il Buddhismo mi appare sempre più come una una sorta di purissima, nobile riforma – una purificazione e spiritualizzazione priva di difetti e dotata di una grande forza ideale, con cui distrugge mondi-immagine per i quali non può offrire un’alternativa4Ibid. pp. 74-75. La citazione è tratta da Aus einem Tagebuch des Jahres 1920, Corona, 3 (1921), pp. 201-202..
In Siddharta Hesse esprime il suo scetticismo sul fatto che il Buddhismo distrugge vecchie credenze senza offrire reali sostituti e non fornisce una guida efficace nella ricerca del senso e della pace interiore. Nel romanzo, Siddharta dice queste parole proprio al Buddha:
Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricchezza, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il tuo pensiero, la concentrazione, la conoscenza, la rivelazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E – tale è il mio pensiero, o Sublime – nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole, e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te nell’ora della tua illuminazione! […] Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché lo so che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri, e raggiungere da solo la mia meta o morire5Questa e le citazioni successive sono tratte da: Hermann Hesse, Siddharta, traduzione di Massimo Mila, Adelphi, Milano 1973..
Mentre il Buddha si allontana, Siddharta medita:
Desidero anch’io saper guardare, sorridere, sedere e camminare, così libero, venerabile, modesto, aperto, infantile e misterioso. Così veramente guarda e cammina soltanto l’uomo che è disceso nell’intimo di sé stesso. Bene, cercherò anch’io di discendere nell’intimo di me stesso.
Siddharta continua questa sua riflessione chiedendosi:
«Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?» Ed egli trovò: «L’Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l’essenza. L’Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui». […] «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L’Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l’Atman, la vita, il divino, l’assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso». […] «Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, né l’Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta».
Mentre il protagonista del romanzo di Hesse si prepara a trovare l’Io da sé, i concetti tratti dalle tradizioni religiose indiane iniziano a diventare confusi. L’autore sta forse parlando dell’Io delle Upaniṣad, l’Atman, o della ricerca emotiva e filosofica in cui spesso gli americani e gli europei si sentono catturati, la ricerca esistenziale del «trovare sé stessi»? Se Hesse si riferisce qui all’Atman delle Upaniṣad, non dobbiamo dimenticare che il Buddha, dopo l’illuminazione, ci ha insegnato in modo assai categorico che non esiste l’Atman, non esiste l’Io (è la dottrina buddhista dell’anātman). Rompendo con la tradizione hindu, il Buddha ha insegnato che non c’è un Io da trovare.
Tuttavia, assumendo quello che riteneva essere lo stesso scopo del Buddha, il Siddharta di Hesse ci offre una via alternativa nella stessa direzione, ma non vincolata alla disciplina e ai precetti buddhisti. In netto contrasto con la via delineata dal Buddha, il protagonista del romanzo vive nelle lusinghe della sensualità e del commercio, ma questo non gli impedisce un’introspezione più profonda di quella conquistata dal suo amico Govinda in quarant’anni da monaco buddhista. Avendo respinto la via indicata dal Buddha per seguire le proprie regole, alla fine del romanzo Siddharta ci appare in pace e soddisfatto del suo grado di comprensione della vita. In una scena verso la fine del libro, vedendo in Siddharta una radiosità che aveva visto solo nel Buddha, Govinda chiede a Siddharta di fornirgli i giusti insegnamenti che permettano anche lui di raggiungere quella pace.
«Ma a me importa solo di poter amare il mondo, non disprezzarlo, non odiare il mondo e me; a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto».
«Questo lo capisco» disse Govinda. «Ma appunto in ciò egli, il Sublime, riconobbe un inganno. Egli prescrisse la benevolenza, la generosità, la compassione, l’indulgenza, ma non l’amore; egli ci proibì di vincolare il nostro cuore nell’amore di cose terrene».
«… Io non posso negare che le mie parole sull’amore non siano in contrasto, in apparente contrasto con le parole di Gotama. Appunto per questo diffido tanto delle parole, perché so che questo contrasto è illusorio. So che sono d’accordo con Gotama. […] Anche in lui, nel tuo grande maestro, mi son più care le cose che le parole, la sua vita e i suoi fatti più che i suoi discorsi».
Scartando come illusorie le differenze fra il suo metodo e quello del Buddha, Hesse/Siddharta rimuove ogni «grandezza» dalle parole e dai pensieri del Buddha Śākyamuni. A Govinda viene semplicemente detto di rispettare la statura di «grand’uomo» del Buddha Śākyamuni e di dimenticare i suoi insegnamenti.
Se ha un certo fascino la nozione che, in fondo, le differerenze fra le diverse tradizioni religiose sono insignificanti o addirittura illusorie, sorge tuttavia un problema quando cerchiamo di scoprire i motivi di queste «differenze evidenti». In realtà, l’insegnamento buddhista del Non Io, dell’Impermanenza e del Vuoto trasmette una visione del mondo molto diversa da quella che prende forma nel credo cristiano in Un Solo Dio e nella permanenza dell’anima individuale. L’approccio di Hesse è fingere che non esistano differenze. Come storica della religione, però, io devo analizzare la figura di Siddharta alla luce di insegnamenti buddhisti fondamentali, come la dottrina del Non Io e la pratica del rifugiarsi nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha – una pratica stabilita dalla tradizione per racchiudere i principi guida più importanti della tradizione stessa. Dal punto di vista di questi insegnamenti, il Siddharta di Hesse non incarna l’ideale buddhista, poiché rifiuta sia quei tre rifugi, sia l’accettazione del Non Io, che hanno un’importanza fodamentale per ogni buddhista. Mentre il protagonista del romanzo di Hesse aspira alla conoscenza del proprio Io, il monaco o la monaca buddhisti si sforzano di vedere il vuoto intrinseco dell’Io.
A volte gli studenti vengono da me dopo avere lottato con il Buddhacarita di Aśvaghoṣa, un poema epico indiano del primo secolo d.C. che narra la vita del Buddha in forma vivace e legata alla sua cultura di provenienza, e chiedono se non sarebbe più utile leggere semplicemente Siddharta di Hesse. Perché, mi spiegano, Siddharta è molto più chiaro e offre l’immagine di un individuo in cerca di spiritualità con cui possono entrare più facilmente in relazione, essendo, come dice lo stesso Siddharta nelle pagine finali del libro, lui stesso un buddhista.
Se Hesse, da un lato, sembra trasmettere concetti indiani, dall’altro fa uso di temi e motivi più vicini al pensiero filosofico occidentale, come la ricerca esistenziale di senso messa in atto dagli individui, la ribellione dei giovani contro le istituzioni e gli insegnanti, la libertà come paradigma di possibilità illimitate, e forse, soprattutto, l’immagine dell’uomo che si è fatto da sé. Il conseguimento, da parte di Siddharta, di ciò che percepiva come profondo senso religioso, più profondo di quello dei monaci buddhisti, avviene seguendo modelli che esprimono maggiormente il pensiero esistenzialista europeo che quello del Buddhismo indiano. Siddharta, in particolare, rifiuta le istituzioni e le pratiche religiose consolidate, così come gli insegnamenti e gli insegnanti di religione. Un modello davvero attraente per un americano imbevuto di ideali di indipendenza e individualismo! Quando gli studenti americani paragonano le eccentricità della lingua sanscrita di un testo del primo secolo come il Buddhacarita con la prosa fluida di una storia che mette in evidenza modelli di pensiero già da loro digeriti, Aśvaghoṣa non ha la minima possibilità di vincere la partita.
In definitiva, presentare punti di vista asiatici attraverso modelli e valori americani ed europei inficia i metodi di insegnamento che riconoscono, rispettosamente ma con fermezza, l’esistenza di differenze culturali e religiose. Noto spesso come gli studenti americani nutrano diversi preconcetti nei confronti delle tradizioni asiatiche, dall’idea che si tratti di «culti che operano il lavaggio del cervello» alla convinzione che siano «fonti di poteri mistici». Quando simili pregiudizi si combinano con la lettura di opere come Siddharta, gli studenti si trovano in difficoltà nell’accettare descrizioni della pratica buddhista effettuate dai buddhisti indiani, o da studiosi e praticanti immersi in quella tradizione. Nel leggere quei testi, gli studenti sono indotti a mettere da parte immagini e concetti che trovavano accattivanti. Per quegli studenti che sentono di avere acquisito una buona conoscenza del pensiero buddhista, avendo frequentato corsi in cui testi come Siddharta sono considerati autorevoli, diventa difficile affrontare testi originali che descrivono una tradizione molto diversa da quella dipinta in Siddharta. A quel punto le loro certezze si trasformano in confusione e in vago senso di tradimento.
Conclusioni
Lo scopo che mi ero prefissa scrivendo questo articolo era quello di analizzare i presupposti e i punti di vista di un testo che non ritengo in grado di fornire un’idea corretta della tradizione buddhista. Gli studenti considerano Siddharta un’opera affascinante e convincente, e mi chiedono cosa penso del suo effettivo valore come fonte attendibile per la comprensione del Buddhismo. Nel rileggere Siddharta con un occhio educato allo studio e al rispetto dei testi originali ho scoperto una storia del tutto diversa da quella che ci ho trovato da studentessa universitaria, che non aveva ancora avuto alcuna esperienza di Buddhismo o di buddhisti. Ora, avendo studiato i testi e i contributi di buddhisti indiani, cinesi, giapponesi e americani, sento di dover mettere in discussione l’uso del romanzo di Hermann Hesse come introduzione al pensiero buddhista. Non voglio con questo sostenere che le uniche fonti autorevoli siano le opere di scrittori originari di una certa tradizione; voglio solo affermare che scrittori e insegnanti che parlano dall’interno di una tradizione devono essere usati come fondamentali pietre di paragone per valutare altre interpretazioni di tali tradizioni. La guida degli studiosi e dei praticanti originari nel loro insieme, non solo l’opera di un paio di essi, deve essere utilizzata come metro di misura per determinare fino a che punto si sono comprese le interpolazioni e i chiarimenti degli «esterni».
Di nuovo, non voglio dire che tutti gli studi provenienti dal di fuori di una particolare tradizione devono essere considerati con sospetto finché non ricevano l’imprimatur di un’élite di studiosi che fanno parte di quella tradizione. Penso, però, che tutti gli autori che esplorano una tradizione religiosa e culturale diversa dalla propria debbano innanzitutto essere consapevoli e poi anche sensibili a come la tradizione spiega sé stessa, sia a chi ne fa parte, sia agli altri. Se un buddhista praticante dovesse leggere Siddharta, si chiederebbe sicuramente cosa ne è stato del fondamento del pensiero buddhista, cioè il profondo rispetto per i tre rifugi e per l’imprescindibile pratica della meditazione.
La sfida, per tutti noi che studiamo tradizioni radicate in culture in cui non siamo nati, è quella di mantenere un approccio accademicamente sincero e sano, cosa che permette al tempo stesso di «entrare» in quella cultura con consapevolezza, sensibilità e rispetto. In questo modo, lo scopo è emergere dallo studio con una solida e profonda comprensione di tale cultura, oltre che con una più profonda conoscenza di noi stessi.