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Photo by Shanthi Raja on Unsplash

Il problema della mindfulness

Tre anni fa, quando studiavo per un master in filosofia all’Università di Cambridge, la mindfulness era molto in voga. Il Dipartimento di Psichiatria, in collaborazione con il consultorio dell’università, aveva avviato uno studio su larga scala sui suoi effetti. Tutte le persone che conoscevo sembravano coinvolte in qualche modo: o frequentavano regolarmente i corsi di mindfulness, compilando  doverosamente i sondaggi o, come me, facevano parte di un gruppo di controllo che non frequentava i corsi, ma che, in ogni caso, si ritrovò coinvolto in quella nuova mania. Ci riunivamo a casa di sconosciuti, a orari improbabili, per meditare e discutevamo avidamente delle nostre esperienze meditative. Era un periodo strano.


Di educazione buddhista, cresciuta fra la Nuova Zelanda e lo Sri Lanka, ho una lunga storia con la meditazione. Anche se, come molti «cattolici culturali», il mio coinvolgimento è stato spesso superficiale. Quando ero piccola mi annoiavo a morte ogni volta che i miei genitori mi trascinavano al tempio. All’università, in ogni caso, mi sono rivolta alla psicoterapia per gestire lo stress dell’ambiente accademico. Com’era prevedibile, ho scoperto di essere attratta da scuole o approcci in cui spiccava l’influenza della filosofia e della meditazione buddhista, fra cui la mindfulness. Nel corso degli anni, prima e durante la sperimentazione a Cambridge, grazie a diversi terapeuti ho costruito un vero e proprio armamentario di tecniche di mindfulness. Mi hanno insegnato a monitorare il mio respiro, ad ascoltare il mio corpo, esaminando la portata delle sue sensazioni, e a prestare attenzione all’interazione fra pensieri ed emozioni nella mia mente. Questo esercizio fa spesso ricorso a un linguaggio visivo, in cui si chiede al soggetto di considerare pensieri ed emozioni come nuvole nel cielo o foglie alla deriva in un fiume. Una pratica molto diffusa (anche se non l’ho mai provata) prevede addirittura che si mangi, con la massima consapevolezza, un acino d’uva, esaminando minuziosamente l’intera esperienza sensoriale, inclusi i cambiamenti di consistenza e i diversi sapori e odori.

 

Quando lo studio dell’università di Cambridge si è concluso, mi sono scoperta più calma, più rilassata e più disinvolta nel non lasciarmi sopraffare dale emozioni. La mia esperienza rifletteva i risultati della ricerca, secondo cui una regolare meditazione con pratiche di mindfulness ridurrebbe i livelli di stress e aumenterebbe la capacità di resilienza. Tuttavia ho cominciato anche a sentirmi turbata da un turbinio di emozioni che non riuscivo a identificare. Era come se non riuscissi più a capire il senso delle mie emozioni e dei miei pensieri. Il saggio che avevo appena finito di scrivere non funzionava perché avevo scelto l’argomento sbagliato o ero solo in ansia per la scadenza incombente? Perché mi sentivo così fuori luogo? Sindrome dell’impostore? Depressione? O semplicemente non ero fatta per questo ambito di ricerca? Non riuscivo a capire se avessi quegli specifici pensieri o emozioni solo perché ero stressata e incline a cedere alle idee melodrammatiche o se invece ci fosse davvero un buon motivo per pensare e provare quelle cose. C’era qualcosa nelle pratiche di mindfulness a cui mi ero dedicata e nel modo in cui mi avevano spinta a rapportarmi alle mie emozioni che mi faceva sentire sempre più estranea a me stessa e alla mia vita. 

 

Negli anni seguenti, questa esperienza mi ha ossessionata, al punto da farmi abbandonare un dottorato in un indirizzo filosofico completamente diverso per sottopormi all’ordalia della reiscrizione a un corso di laurea solo per poter capire cos’era successo. Dai più antichi testi buddhisti ai più recenti libri di meditazione, ho cominciato a seguire una traccia che mi permettesse di osservare come le loro idee fossero confluite nella mindfulness contemporanea. Quello che ho scoperto presenta implicazioni preoccupanti riguardo alla relazione che la mindfulness ci invita a intrattenere con i nostri pensieri, le nostre emozioni e la stessa percezione di sé. 

 

Laddove una volta europei e nordamericani si sarebbero rivolti alla religione o alla filosofia per scoprire se stessi, oggi tendono sempre più spesso ad affidarsi alla psicoterapia e ai suoi derivati. La mindfulness è un esempio paradigmatico di questo mutamento culturale nelle abitudini di riflessione e indagine su di sé. Anziché stimolare una attitudine decisionale nel soggetto, ciò che le varie arti della mindfulness hanno in comune è una certa tendenza a renderlo spettatore degli eventi in corso – una modalità spesso descritta come «consapevolezza acritica del momento presente». I praticanti vengono disincentivati da un approccio critico o valutativo alle loro esperienze, anzi spesso viene loro esplicitamente prescritto di ignorare il contenuto dei propri pensieri. 

 

Nel caso dell’acino d’uva, per esempio, il focus è il procedimento con cui viene consumato – non ci chiediamo se ci piaccia davvero, non ripensiamo a quelle piccole scatole rosse in cui ci servivano l’uva a scuola,  e così via. Allo stesso modo, quando ci concentriamo sul nostro respiro o ascoltiamo il nostro corpo, dovremmo essere completamente assorti in quell’unica attività, e non seguire il flusso dei nostri pensieri o cedere alla noia o alla frustrazione. L’obiettivo non è riuscire a non pensare o non provare nulla, piuttosto prendere atto di ciò che si risveglia in noi, e lasciarlo scorrere con altrettanta leggerezza. 

 

Una delle ragioni per cui la mindfulness incontra un pubblico tanto devoto è la neutralità valoriale di cui si ammanta. Nel suo libro del 1994 Wherever you go (edito in Italia come Dovunque tu vada, ci sei già nel 2011) Jon Kabt-Zinn, padre fondatore della mindfulness contemporanea, sostiene che la mindfulness «non è in contrasto con nessuna fede […] – religiosa o scientifica – e non cerca di convincervi di nulla, meno che mai di un sistema ideologico o di fede». Kabat-Zinn e i suoi seguaci sostengono che le pratiche di mindfulness, oltre a ridurre lo stress, possono aiutare ad alleviare il dolore fisico, lenire la malattia mentale, aumentare la produttività e la creatività, e aiutarci a capire il nostro «vero» io. La mindfulness è diventata una sorta di risposta jolly a una marea di mali moderni – qualcosa di innocente, dal punto di vista ideologico, che può trovare agevolmente posto nella vita di chiunque, a prescindere dal suo percorso, la sua fede o i suoi valori. 

 

Tuttavia non mancano i critici. La sua relazione con il Buddhismo, in particolare per quanto riguarda le pratiche di meditazione, è un terreno di costanti controversie. Gli studiosi buddhisti hanno mosso ogni genere di accusa alla mindfulness contemporanea: dallo snaturamento del Buddhismo all’appropriazione culturale. Kabat-Zinn ha ulteriormente intorbidito le acque sostenendo che la mindfulness è una dimostrazione degli insegnamenti chiave delle dottrine buddiste. I detrattori però rispondono dicendo che la dimensione acritica della mindfulness è in netto contrasto con la meditazione per come la considera il Buddhismo, nel corso della quale viene insegnato a esaminare e affrontare le proprie esperienze alla luce della dottrina buddhista. 

 

Altri evidenziano come gli obiettivi della psicoterapia e della mindfulness siano incompatibili con i principi del buddhismo: se, per esempio, la psicoterapia cerca di ridurre la sofferenza, il Buddhismo la ritiene radicata così in profondità che il soggetto dovrebbe puntare direttamente a sottrarsi alla penosa ciclicità della rinascita. Una terza linea d’accusa potrebbe essere riassunta nell’epiteto «McMindfulness». Critici come lo scrittore Dvid Forbes e il docente di management Ronald Purser sostengono che, in parallelo alla migrazione della mindfulness dalla sfera terapeutica al mainstream, la spinta mercificatrice del marketing ne ha prodotto versioni annacquate e corrotte – fruibili tramite app come Headspace and Calm e insegnate in corsi scolastici, universitari e aziendali. 

 

Le mie critiche alla mindfulness sono di un ordine diverso, per quanto correlato. Proponendosi come soluzione multifunzionale, multi-utente, adatta a ogni occasione, la mindfulness sminuisce le difficoltà insite nel processo di comprensione di sé. Trova agevolmente posto in una cultura di tecno-rimedi, risposte facili e self-hack, in cui possiamo tranquillamente limitarci a rimaneggiare ciò che ci passa per la testa per risolvere un problema immediato, invece di chiederci in primis perché le nostre vite ci lascino così insoddisfatti. Però, come ho scoperto grazie alla mia esperienza, prestare attenzione ai propri pensieri ed emozioni non è sufficiente. Per capire perché la mindfulness sia così singolarmente inadeguata a un progetto di sincera comprensione di sé, dobbiamo esaminare i sottaciuti assunti sull’individualità che sono sepolti nelle sue fondamenta. 

 

Nonostante le più nobili aspirazioni universaliste di Kabat-Zinn, la mindfulness è, di fatto, «connotata metafisicamente»: richiede ai suoi praticanti di fare proprie pratiche e posizioni che potrebbero non essere pronti ad accettare. Nello specifico, la mindfulness affonda le proprie radici nella dottrina buddhista dell’anattā o del «non-sé». L’Anattā è una negazione metafisica del sé, che propugna la tesi secondo cui non esiste nessuna anima, spirito o fondamento individuale e continuo dell’identità. In questa prospettiva viene negata l’idea secondo cui ciascuno di noi sarebbe il soggetto che sta alla base di ogni nostra esperienza. Secondo la tradizione metafisica occidentale invece  – in aggiunta a pensieri, emozioni e sensazioni –  esiste una qualche entità che esperisce tutti questi fenomeni, e, logicamente, è possibile chiamarla «io» o «me». Tuttavia, stando alla filosofia buddhista, non esiste un «sé» o un «io» a cui queste esperienze possano essere ricondotte. 

 

È impressionante la quantità di elementi in comune fra le strategie buddhiste volte a svelare la «verità» dell’anattā e gli esercizi di mindfulness. Una tecnica utilizzata nel Buddhismo, per esempio, prevede che si esaminino pensieri, emozioni e sensazioni fisiche per prendere atto della loro impermanenza, individuale e collettiva. I nostri pensieri e le nostre emozioni cambiano molto velocemente, e le sensazioni fisiche vanno e vengono, in risposta agli stimoli. Perciò (così procede il ragionamento) non possono costituire un’entità permanente, che duri una vita intera – e il sé , qualsiasi cosa sia, non può essere effimero quanto questi fenomeni. Il sé, inoltre, non può neanche essere il risultato della loro totalità, che è altrettanto impermanente. Ma allora, sottolineano i buddhisti, non c’è nulla al di là di questi fenomeni che posa costituire il sé. Di conseguenza, non esiste alcun sé. Una volta preso atto della loro impermanenza, si inizia a comprendere inoltre la loro natura impersonale. Non c’è nessun «io» a cui fenomeni transitori come il pensiero possano appartenere, per cui non è possibile dire che questi pensieri sono «miei».

 

Proprio come i loro predecessori buddhisti, i sostenitori della mindfulness contemporanea attribuiscono grande rilevanza alle qualità dell’impersonalità e dell’impermanenza. Gli esercizi mettono costantemente in evidenza la natura transitoria di ciò che viene osservato nel momento presente. L’idea della transitorietà viene rinforzata grazie a indicazioni esplicite («guarda con quanta semplicità i pensieri appaiono e scompaiono») o a immagini visive («immagina che i tuoi pensieri siano nuvole che si allontanano nel cielo») che ci incoraggiano a non lasciarci coinvolgere eccessivamente nelle nostre esperienze («Tu non sei i tuoi pensieri, tu non sei il tuo dolore» sono due mantra comuni). 

 

Tendo a imputare la sensazione di estraneità e di disorientamento di cui parlavo alla stretta relazione fra mindfulness e anattā. Con la dottrina del non-sé non ci liberiamo solo della nostra abituale concezione del sé, ma anche dell’idea che fenomeni psichici come il pensiero non siano davvero nostri. Così facendo, diventa molto più difficile capire perché proviamo sensazioni e pensieri in un determinato modo, e limitiamo al contempo le possibilità di raccontare una storia più ampia di noi stessi e delle nostre vite. Il desiderio di comprendere chi siamo va di pari passo con la convinzione che ci sia qualcosa da capire, e non parliamo necessariamente di qualche sostrato metafisico ma di una più ordinaria, continua entità quale potrebbe essere il carattere o la personalità. Normalmente non crediamo che i pensieri e le emozioni siano irrelati, che siano semplici eventi transitori che, per caso, si presentano alla nostra mente. Piuttosto tendiamo a credere che ci appartengano perché, in qualche modo, ci rispecchiano. Chi teme di essere nevrotico, per esempio, probabilmente ha questa preoccupazione per via di un’incessante sensazione di insicurezza o di ansia, o perché tende a essere molto puntiglioso. Per cui vedrà nella propria personalità o in alcuni tratti caratteriali la sorgente di queste emozioni. 

 

Certo, spesso è molto utile in termini pragmatici prendere le distanze dal peso delle proprie elucubrazioni ed emozioni. Vederle come foglie spazzate dal vento può aiutarci placarne la foga in modo da potervi identificare uno schema e accorgerci di ciò che le scatena. Ma, a un certo, punto la mindfulness rende impossibile analizzare e assumersi la responsabilità delle proprie emozioni. Il che non è di grande aiuto se si vogliono passare in rassegna diverse spiegazioni fra loro contrastanti sul perché ci si senta o si pensi in un certo modo. Né permette di chiarire che cosa i nostri pensieri e le nostre emozioni rivelino di noi. La mindfulness, radicata nell’anattā, non può che proporre un’ovvietà: «Io non sono le mie emozioni». Il suo armamentario concettuale inibisce affermazioni più conflittuali come «mi sento insicuro», «ecco, questa è la mia ansia» o «potrei essere nevrotico». Senza rivendicare in una certa misura la proprietà dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, diventa molto difficile assumersene la responsabilità. La relazione fra il singolo e i suoi fenomeni psichici è una relazione seria, gravosa, che abbraccia diversi aspetti legati alla responsabilità e alla storia del soggetto. E non dovrebbe essere accantonata con tanta noncuranza. 

 

Oltre a recidere il legame con le nostre emozioni e i nostri pensieri, la mindfulness ostacola la comprensione di sé in altri modi. Liberandoci del sé, lo isoliamo dal suo ambiente e dunque dal contesto specifico grazie a cui potrebbe essere indagato. Scrivo queste righe dopo un mese di discreta afflizione. Se praticassi la mindfulness, noterei la presenza di sensazioni tristi, di impotenza, così come di pensieri ansiosi. Se è vero che la mindfulness potrebbe aiutarmi indirettamente a intravvedere qualcosa nei miei pensieri ricorrenti, senza una qualche nozione di sé – separato ma al contempo calato in un contesto sociale – non riuscirei ad andare molto più a fondo. Le tracce dei nostri pensieri e delle nostre emozioni, prese singolarmente, non ci permettono di capire se stiamo reagendo in maniera esagerata a qualche piccolo inconveniente o, come nel mio caso, se la nostra è invece una reazione adeguata a un recente avvenimento tragico. 

 

Per poter trovare delle spiegazioni più profonde sul perché proviamo certe emozioni e abbiamo certi pensieri, dobbiamo considerarci individui distinti, che agiscono all’interno di un certo contesto. Bisogna avere una qualche nozione dell’individualità, dal momento che è proprio questa a permetterci di distinguere una semplice risposta al contesto da ciò che invece ha origine in noi. So bene di avere una tendenza nevrotica a preoccuparmi e a rimuginare eccessivamente sulle cose. Pensare a me stessa come a un individuo in un contesto specifico è ciò che mi permette di capire se l’origine delle mie preoccupazioni sia da cercare in me, in qualche tratto caratteriale, o invece nella risposta a una situazione esterna. Spesso la soluzione è una via di mezzo, ma anche questa ambivalenza richiede un attento esame non solo delle emozioni e dei pensieri ma anche del contesto in cui sono nati. 

 

La mindfulness, al contrario, tende a mettere fra parentesi il contesto, il che non è solo d’ostacolo alla comprensione di sé, ma rende, inoltre, le nostre difficoltà pericolosamente apolitiche. Anziché rivolgersi a una sempre più nutrita letteratura che illustra le cause originarie del disagio psichico, i policymaker tendono a prediligere soluzioni onnicomprensive e a basso costo rivolte a un’ampia base di clienti. Di solito ci si concentra esclusivamente su ciò che turba il soggetto e sui modi in cui alleviarne il disagio, anziché indagare più a fondo le condizioni politiche e socioeconomiche che hanno dato origine a quel disagio. Le persone più anziane, per esempio, tendono a soffrire maggiormente di depressione, ma di solito il problema viene affrontato esclusivamente con mezzi farmaceutici o terapeutici, piuttosto che prendere in considerazione, per dirne una, l’isolamento sociale o le difficoltà finanziarie. La mindfulness segue questa stessa tendenza alla semplificazione e all’individuazione. I suoi presupposti intrinseci sul sé la rendono particolarmente incline a trascurare considerazioni di più ampio respiro, dal momento che impediscono di concepire l’individuo come un soggetto coinvolto e influenzato dalla società. 

 

Non sto dicendo che chiunque si dedichi alla mindfulness si senta estraniato dai propri pensieri, come è successo a me, né che abbia necessariamente una capacità limitata di comprendere se stesso. Può essere in effetti uno strumento utile, in grado di aiutarci a prendere le distanze dal tumulto della nostra esperienza interiore. Il vero problema è l’attuale tendenza a presentare la midnfulness come una rimedio totale, una panacea per ogni sorta di male moderno.

 

Mi diletto ancora con la mindfulness, ma oggi tendo a servirmene con moderazione. Magari mi dedico a una sessione dopo una giornata difficile al lavoro, o se non riesco a dormire, senza però farne una pratica costante. Con la sua promessa di poter aiutare chiunque in qualsiasi cosa, l’errore della mindfulness consiste nel presentarsi come una forma di consapevolezza superiore o universalmente valida. Il fatto che affondi le proprie radici nella dottrina buddhista dell’anattā significa che così viene messa da parte una specifica forma di profonda e deliberata riflessione necessaria a disfare la matassa dei nostri pensieri e delle nostre emozioni per capire quali scaturiscano da noi, quali siano una risposta all’ambiente e rispondere alla domanda più difficile: che cosa fare a riguardo.  

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