Questo articolo esplora l’espressione «buddhismo antico», nel tentativo di chiarirne il significato e di considerare la rilevanza di ciò che essa designa sia per gli studiosi che per i praticanti.
Il terreno comune
L’espressione «buddhismo antico» si riferisce al primo periodo dello sviluppo del pensiero e della pratica buddhisti, che va dagli esordi fino a circa l’epoca del regno di Aśoka nel III sec. a.C [1]. Difficile determinare con certezza il periodo di partenza, cioè l’epoca in cui il Buddha stesso sarebbe vissuto [2]. Tuttavia, possiamo ritenere, molto approssimativamente, che l’epoca del buddhismo antico copra un arco temporale di circa due secoli.
Questi due secoli di sviluppo del pensiero e della pratica costituiscono il terreno comune a partire dal quale si sono sviluppate le diverse tradizioni buddhiste e da cui tutte hanno tratto la loro principale ispirazione. Una di queste è la tradizione a cui oggi ci riferiamo col termine Theravāda, la quale va distinta dal buddhismo antico. Tale termine può essere utilizzato per descrivere la tradizione, o le tradizioni, dell’Asia meridionale e sud-orientale a partire dall’epoca della trasmissione del buddhismo nello Sri Lanka durante il regno del sovrano Aśoka (per quanto a quel tempo il termine non fosse ancora in uso), e da allora in poi può applicarsi alle diverse manifestazioni di questa tradizione (o, meglio, di queste tradizioni), non solo in quei territori ma anche, più di recente, in occidente.
Il «buddhismo antico», al contrario, non è più una tradizione vivente, per il semplice motivo che si riferisce a una fase iniziale dello sviluppo del buddhismo ormai conclusasi da tempo [3]. Al giorno d’oggi non avrebbe senso per nessuno definirsi un «buddhista antico», così come non lo avrebbe definirsi un «filosofo greco antico». Possiamo certamente trarre ispirazione dal pensiero del buddhismo antico o dagli insegnamenti degli antichi filosofi greci, ma ciò sarà invariabilmente influenzato dal contesto determinato dalla nostra attuale visione del mondo e dal condizionamento socio-culturale, cosa che va riconosciuta con chiarezza.
In altre parole, il «buddhismo antico» è un fossile prezioso di un tempo passato; può essere fonte di grande ispirazione, ma non può essere riportato in vita.
La parola del Buddha
Oltre a non poter essere identificabile con una qualche tradizione buddhista esistente – né tanto meno esserne di esclusiva proprietà – il «buddhismo antico» non coincide nemmeno con la «parola del Buddha», nel senso delle parole pronunciate verbatim dal fondatore in un dato momento del V secolo a.C. in India. La situazione è simile al cosiddetto «problema socratico», nel qual caso non abbiamo accesso diretto agli insegnamenti di Socrate, anch’egli vissuto nel V secolo a.C. Tutto quello che conosciamo dei suoi insegnamenti ci proviene dai resoconti di altri, segnatamente di Aristofane, Platone e Senofonte. Allo stesso modo, non abbiamo un accesso diretto agli insegnamenti del Buddha storico, dal momento che tutto ciò che sappiamo al riguardo deriva da testi che sono il risultato finale di secoli di trasmissione orale, con i suoi punti di forza e le sue difficoltà e vicissitudini [4].
Da quanto detto sopra ne consegue che la questione dell’autorevolezza non può essere legata esclusivamente al fatto che tutto ciò derivi dalla bocca del Buddha storico [5]. In realtà, le stesse raccolte testuali del buddhismo antico includono gli insegnamenti impartiti dai discepoli, su esplicita richiesta del Buddha o no, con la sua dichiarata approvazione o senza. È evidente che, fin dall’inizio, la lettera degli insegnamenti non fu del tutto limitata a quanto si riteneva che il Buddha stesso avesse pronunciato.
In questo modo, il quadro che emerge è del tutto in linea con gli insegnamenti sulla condizionalità e sul vuoto. La piena comprensione degli «insegnamenti del Buddha» alla luce di queste due dottrine centrali del buddhismo antico, nel senso di un pieno apprezzamento delle dinamiche della sua trasmissione orale, pregiudica qualsiasi pretesa di avere accesso diretto alle reali parole del Buddha nella loro forma precisa. Abbiamo accesso solo a quelli che sono gli esiti di quanto è stato tramandato da una generazione all’altra di recitatori buddhisti nella convinzione di trasmettere la parola del Buddha.
Anche se le precise parole del Buddha storico sono ormai fuori dalla nostra portata, abbiamo a disposizione le testimonianze di ciò che le prime generazioni dei suoi discepoli hanno creduto che egli avesse insegnato. Sono proprio queste che hanno fatto della sua figura una fonte d’ispirazione duratura per le successive generazioni di buddhisti. In altre parole, anche se non abbiamo accesso al Buddha vissuto nell’India antica, abbiamo il Buddha che vive nella memoria delle prime generazioni dei suoi discepoli.
Attraverso la ricerca comparata condotta sui testi del buddhismo antico, possiamo comprendere ed apprezzare meglio quanto, circa due secoli dopo la sua effettiva attività di maestro, si è ritenuto che il Buddha avesse insegnato, e che costituisce il terreno comune alle diverse tradizioni buddhiste.
Queste memorie testuali sono quanto abbiamo di più vicino alla «parola di Buddha». Assai più vicino dei testi più tardi, naturalmente, e tuttavia non così prossimo per poter affermare con certezza che questa o quella affermazione sia stata pronunciata esattamente in questo modo dal Buddha storico.
Le fonti del buddhismo antico
Per questo periodo antico della storia del buddhismo, la fonte primaria è quasi interamente testuale [6]. Ciò non è privo di inconvenienti, dal momento che le interpretazioni basate unicamente su materiale testuale, senza avere accesso ad una tradizione vivente o almeno ai suoi resti archeologici e iconografici, talvolta possono essere fuorvianti. Inoltre, c’è urgente bisogno di evitare quella che è una tendenza emersa nel XIX secolo nell’ambito degli studi buddhisti in occidente, cioè quella di costruire, a partire dai testi, una presunta forma pura di buddhismo, contrapposta alle sue altrettanto presunte espressioni inautentiche o addirittura degenerate in terra d’Asia [7].
Un problema analogo, collegato al precedente, è rappresentato dall’assillo della ricerca delle origini che ha caratterizzato l’Europa del XIX secolo [8]. Tuttavia, la ricerca di ciò che costituisce il periodo formativo non deve essere equiparata all’ossessione per le origini. Questa, infatti, può mostrarsi anche in relazione alle epoche più tarde. Ne è un esempio l’affermazione che il costrutto stesso di «buddhismo» abbia le sue radici in occidente negli scritti accademici del XIX secolo. Questa pretesa costituisce un esempio della ricerca delle origini, in questo caso attribuite erroneamente al XIX secolo, ignorandone tutti gli antecedenti asiatici [9]. Ciò dimostra che il solo fatto di aggirare il periodo formativo del buddhismo non risolve il problema dell’ossessione dell’origine, dal momento che questa medesima tendenza può manifestarsi anche in merito alle epoche posteriori. Nel caso del buddhismo antico, il tentativo di determinarne le origini con precisione è di fatto reso vano dalla natura stessa delle fonti.
Oltre a questi problemi, tra alcuni studiosi contemporanei sussiste anche il desiderio, del tutto comprensibile, di prendere le distanze dagli assunti ottocenteschi secondo cui il canone pāli rappresenta l’unica forma autentica di buddhismo, avendo conservato con precisione la parola del Buddha [10]. Nell’ambito degli studi buddhisti, questo sembra aver portato alla tendenza a evitare il periodo del buddhismo antico [11].
Eludere il periodo antico mi sembra, tuttavia, che non sia un approccio particolarmente promettente per risolvere il problema. I malintesi in merito ad esso possono piuttosto essere chiariti meglio sulla base di una ricerca guidata dal metodo storico-critico. Se condotto con metodologia e attitudine adeguate, lo studio del buddhismo antico non porta di necessità a sminuire le sue forme più tarde [12].
Prendiamo il caso dell’evoluzione delle specie. Sappiamo relativamente poco degli inizi della vita su questo pianeta, perché, a causa del lungo arco di tempo intercorso e della semplicità delle forme di vita di quel periodo, le prove fossili sono poche. Tuttavia, alcune cose sono certe, come, ad esempio, il fatto che non esistessero ancora i dinosauri. Lo sappiamo perché le forme di vita hanno subito un notevole sviluppo prima della comparsa dei dinosauri. Per avere questa conoscenza non è necessario identificare uno specifico animale come «il primo dinosauro» al fine di tracciare la linea di sviluppo che ha portato alla loro comparsa.
Riconoscere che i dinosauri non erano ancora comparsi agli inizi della storia della vita su questo pianeta non è nemmeno un giudizio di valore; non significa che i dinosauri siano in qualche modo migliori o peggiori di altre specie. Che a quell’epoca i dinosauri non esistessero è semplicemente un fatto storico.
Allo stesso modo, per quanto le prove per ricostruire il buddhismo antico siano limitate e, inoltre, non si sia in grado di individuare con precisione un testo «originale», o «Urtext», sappiamo con certezza quanto è venuto in essere successivamente, in virtù del notevole sviluppo che ha avuto luogo nel tempo. Questo vale per l’Abhidharma così come per il pensiero e la pratica Mahāyāna. La prospettiva storica che emerge in questo modo non comporta un giudizio di valore in quanto tale, né implica una svalutazione. Al contrario, fornisce la base necessaria per poter comprendere in maniera adeguata le tradizioni buddhiste posteriori.
La prospettiva storica
La prospettiva storica che emerge attraverso lo studio del buddhismo antico può rivelarsi di cruciale importanza sia per gli studiosi che per i praticanti.
In merito ai primi, prendiamo ad esempio lo studio dell’«età dell’oro» della filosofia buddhista indiana. Questo argomento non richiederebbe forse una ricerca sulla filosofia del buddhismo antico, al pari dell’attenzione dedicata alle tradizioni filosofiche dell’Abhidharma, del Madhyamaka e dello Yogācāra? [13] Ci sono delle differenze sostanziali tra la filosofia del buddhismo antico e il pensiero dell’Abhidharma, perciò essa non è implicitamente compresa nello studio di quest’ultimo.
Lo studio comparativo dei testi del buddhismo antico può inoltre fornire una serie di prospettive significative ed offrire dei contributi utili alla nostra comprensione degli inizi dell’Abhidharma così come della genesi dell’ideale del bodhisattva [14]. Anche per quanto riguarda la Terra Pura e gli approcci tantrici, si può dimostrare come abbiano dei distanti antecedenti nei discorsi in pāli [15].
Mi sembra giunto il momento di uscire dallo schema reattivo nei riguardi dei problemi derivanti dagli studi ottocenteschi e di giungere pienamente nel XXI secolo, collocando il buddhismo antico nella sua giusta posizione, né più né meno che su un piano di parità con le altre epoche e tradizioni buddhiste. A distanza di più di cent’anni dalle pubblicazioni delle traduzioni e interpretazioni di studiosi ottocenteschi come T.W. Rhys Davids, forse ora non è più necessario prendere le distanze dal loro lavoro. Quanto da questi espresso può essere semplicemente visto come un prodotto della loro epoca [16], con la speranza che le future generazioni facciano lo stesso con i nostri scritti.
Il vantaggio di cogliere idee e testi come prodotti del loro tempo si allarga dal mondo degli studiosi a quello dei praticanti, dove una tale prospettiva si rivela di particolare beneficio quando la si applichi alla tradizione, o alle tradizioni, verso cui uno sente un senso di appartenenza.
Il buddhismo non è mai stato, né mai sarà, un’entità statica e solida esistente in astratto. Piuttosto, si tratta di un continuo processo di risposta al mutare delle circostanze e alle diverse prove dalla prospettiva del Dharma. Il buddhismo antico lo fa a partire dall’interno del contesto socio-culturale del suo antico scenario indiano. Anche se questa risposta è particolarmente vicina all’epoca del Buddha storico, allo stesso tempo è decisamente distante dal nostro tempo. Ciò rende difficile una sua esatta interpretazione e rapportarla in modo significativo al mondo postmoderno. Sarebbe assurdo aspettarsi che duemilacinquecento anni fa si sia scoperta, una volta per tutte, una soluzione ai nostri problemi contemporanei, che ora dovremmo semplicemente adottare. Allo stesso tempo, però, la saggezza antica non dovrebbe essere disconosciuta qualora la sua rilevanza non sia immediatamente chiara a prima vista.
Al contrario, c’è bisogno di un processo di dialogo e di negoziazione tra la nostra particolare collocazione e quella delle diverse tradizioni buddhiste, incluso il buddhismo antico, ciascuna delle quali ha qualcosa di importante da offrire. Sfruttare appieno le potenzialità che si offrono non richiede di forzarne la collocazione sotto un unico ombrello perennialista, ignorando la ricchezza della loro diversità. Né fa da sponda per sostenere la tradizione in cui ci si trova collocati come l’unica vera interprete del buddhismo. Una via di mezzo che si tenga distante da questi due estremi la possiamo rinvenire nell’adozione di una prospettiva storica, partecipe dei risultati della ricerca accademica nell’ambito degli studi buddhisti.
Questa prospettiva permette di situare le diverse (e talvolta dissonanti) tradizioni d’insegnamento buddhiste lungo la traiettoria del tempo, in modo da comprendere il particolare insieme di condizioni che hanno portato a ciascuna di queste posizioni, senza sentirsi obbligati ad accettarle o rigettarle immediatamente. L’obiettivo generale non è quindi la costruzione di un forte senso d’identità, quanto piuttosto quello di accrescere la comprensione.
Questo non significa affatto che la prospettiva storica non sia talvolta impegnativa. Lo può essere certamente, in quanto può mettere in discussione convinzioni ed assunti mantenuti per lungo tempo. Ma è una sfida dharmica, dal momento che costituisce un invito a vedere qualsiasi cosa, comprese le nostre opinioni e convinzioni più sentite, come sorta condizionatamente, impermanente, non in grado di offrire una soddisfazione duratura e sicuramente vuota.
Il Dharma è una zattera:
non qualcosa a cui attaccarsi,
ma da usare per il passaggio all’altra riva.
Bibliografia
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Note
[1] Griffiths 1983, p. 56: «Con “buddhismo antico” intendiamo, in senso lato, il buddhismo indiano antecedente all’epoca di Aśoka».
[2] Si veda Bechert 1995.
[3]Un esempio, citato con approvazione da Skilling 2021, p. 60 (con la nota 120), a proposito della necessità di problematizzare questo termine, è Li 2012, p. 34, il quale utilizza, e successivamente ne evidenzia la problematicità, il termine «buddhismo antico» come riferimento al «buddhismo indiano in essere prima dell’ascesa del movimento Mahāyāna, nonché a quella forma di buddhismo che ha continuato ad affiancarlo dopo il suo sorgere». La seconda parte di questa definizione è effettivamente problematica. L’aggettivo «antico» dovrebbe essere utilizzato solo in riferimento a ciò che lo è davvero, non per il buddhismo indiano del periodo medio. Le tradizioni posteriori (compreso il buddhismo contemporaneo) possono benissimo ispirarsi al pensiero del buddhismo antico, ma questo non rende le stesse «antiche». Il problema, qui, non è semplicemente quello di un uso accurato dell’aggettivo «antico». Oltre a ciò, è necessario prendere atto che i buddhisti del periodo medio non potranno eludere il punto di vista della loro specifica tradizione esegetica, motivo per cui non possono divenire buddhisti antichi, per quanto possano apprezzare il buddhismo antico. Per questa ragione è importante impiegare l’appellativo di «buddhismo antico» con una chiara comprensione di ciò che può e di ciò che non può designare.
[4] Si veda più in dettaglio Anālayo 2022.
[5] In un certo senso, questo prefigura le questioni relative alla nozione di buddhavacana nelle tradizioni posteriori. Si veda al riguardo il recente studio di Nance 2022.
[6] Le fonti testuali rilevanti sono principalmente i quattro Āgama/Nikāya, assieme a raccolte minori (principalmente in poesia) la cui versione pāli si trova nel quinto Nikāya, segnatamente il Dhammapada, l’Udāna, l’Itivuttaka e il Suttanipāta. In merito agli Āgama/Nikāya si veda Anālayo 2015 e, riguardo al valore storico di questo tipo di testi, Anālayo 2012.
[7] Secondo Almond 1988, p. 33 e p. 40, ciò si è configurato come la creazione di «un buddhismo ideale, costruito a partire da fonti che per lo più sono state individuate, e perciò regolate, dall’occidente. Di conseguenza […] il buddhismo si è sviluppato come un “qualcosa” narrato principalmente in occidente, delimitato e definito in virtù del suo confinamento all’interno delle istituzioni intellettuali, politiche e religiose di questo. Dunque, si è guardato al buddhismo, così come si è manifestato in oriente, solamente attraverso la mediazione di quanto in definitiva si è detto su di esso altrove […] l’immagine di declino, decadenza e degenerazione, è emersa in quanto risultato della possibilità di contrapporre un ideale buddhismo testuale del passato alle sue istanze orientali contemporanee. Nello stesso tempo, ciò ha fornito la giustificazione ideologica per le imprese missionarie portate avanti da un cristianesimo progressista e fiorente contrapposto ad un buddhismo ormai indebolito. La creazione vittoriana di un ideale buddhismo testuale è stata una componente chiave nel rifiuto del buddhismo in oriente».
[8] Almond 1988, p. 95, segnala quella che «fu, per tutta la metà e l’ultima parte del XIX secolo, l’ossessione per la ricerca delle origini, biologiche, geologiche e storiche. Alla base di una tale ricerca storica stava l’assunto che l’originale rappresentasse l’essenziale […] Si sviluppò una dialettica tra un buddhismo “puro” contro uno “corrotto”, basata sulla priorità storica del buddhismo pāli rispetto al più tardo Mahāyāna».
[9] Si veda nel dettaglio Anālayo 2021a, pp. 108‒113.
[10] Salomon 2018, p. 56, spiega: «I primi studiosi del buddhismo in occidente, soprattutto nel mondo di lingua inglese, avevano ipotizzato che il canone pāli rappresentasse le scritture originali del buddhismo […] Questa opinione prevalse soprattutto perché il canone pāli della tradizione Theravāda dello Sri Lanka e dell’Asia sud orientale era l’unico ad essere sopravvissuto in forma completa e intatta in una lingua indiana, e perché era giunto all’attenzione degli studiosi in tempi relativamente recenti, a seguito della colonizzazione dello Sri Lanka da parte dell’Inghilterra. Ciò creò l’illusione che il canone pāli fosse l’unico vero canone buddhista, e questa errata convinzione fu rafforzata dall’auto-rappresentazione dei detentori di quella tradizione, i quali furono i principali punti di contatto col mondo buddhista degli studiosi europei. Ma è ormai chiaro che l’apparente primato e l’autorità del Tipiṭaka è solo un incidente della storia».
[11] Possiamo forse fare un esempio di questa tendenza abbastanza marcata citando il consiglio fornito da Collins 2017, p. 26: «Allora, da dove dovremmo cominciare? Suggerisco fortemente non dal primo periodo: sappiamo, e sapremo sempre, davvero troppo poco per produrre qualcosa di più che fantasie valutative e pregiudizievoli». Nella critica rivolta a Gombrich 2009, Collins, p. 21, parla poi della «reductio ad absurdum di tutta questa mania del buddhismo antico. Come storici, restiamo più sobri, siamo meno patologici». Senza per questo voler avallare le posizioni assunte da Gombrich 2009, ho qualche difficoltà a conciliare l’appello alla sobrietà degli studiosi col tono di dura polemica adottato subito dopo da Collins quando squalifica gli scritti di un altro studioso ‒ tra l’altro, suo ex-insegnante universitario ‒ giudicandoli «patologici».
[12] Con buona pace di quanto affermato da Collins 2017, p. 19: «Qualsiasi immagine del buddhismo “antico”, che può essere ricavata solo a partire da testi composti e redatti secoli dopo, tenderà inevitabilmente a vedere il buddhismo di fatto esistente come una qualche degenerazione di una forma ideale».
[13] La scelta di adottare questo tipo di approccio, di non riservare al buddhismo antico un’adeguata trattazione a sé stante, all’interno di uno studio monografico sull’«età dell’oro della filosofia buddhista indiana», sembra essere motivata dal desiderio, di per sé comprensibile, di Westerhoff 2028, pp. 11 ss, di prendere le distanze dalla ricerca degli «insegnamenti originali» o del «pensiero originale» del Buddha, esemplificata da Gombrich 2009.
[14] Si veda Anālayo 2010, 2014 e 2017.
[15] Si veda Anālayo 2018 e 2021b.
[16] Secondo Almond 1988, p. 66: «A differenza di molti, Rhys Davids riteneva che le leggende e i miti avessero un valore intrinseco […] Tuttavia, molto di rado troviamo eco della sua opinione tra i suoi contemporanei». Questo forse può aiutare a mettere a tacere l’impulso a castigarlo per il suo modo di esporre/promuovere il buddhismo pāli.