Nel secolo che precedette la nascita del Buddha, l’India nordorientale subì cambiamenti radicali che ridisegnarono profondamente la geopolitica della regione. Gli antichi stati tribali cedettero il passo a monarchie governate da re ambiziosi che si contendevano il potere, lasciando dietro di sé tracce di sangue e lacrime. Lo stato dei Sakya, la terra natìa del Buddha, divenne vassallo del regno di Kosala, e in seguito durante la seconda parte della vita del Buddha, il crudele re Vidudabha, sovrano ribelle del Kosala, massacrò i Sakya, lasciando pochi superstiti. Lo stato del Magadha, con la sua capitale a Rajagaha, divenne il nucleo di un nuovo impero.
I discorsi del Buddha ci offrono uno sguardo sulla marea tumultuosa di quel periodo. Ci raccontano di come “gli uomini brandiscono spade e scudi, indossano archi e frecce, e si lanciano in battaglia… dove vengono feriti da frecce e lance, e le loro teste sono mozzate dalle spade… e vengono inondati da liquidi bollenti e schiacciati da macigni” (MN 13:12-13). Leggiamo di campi di battaglia segnati da “nuvole di polvere, gli emblemi degli stendardi, il clamore, e i colpi” (AN 5:75). I sovrani ossessionati dalla brama per il potere giustiziavano i loro rivali, li imprigionavano, confiscavano le loro proprietà, e li condannavano all’esilio (AN 3:69).
Su questo sfondo di caos sociale e disorientamento personale, il Buddha propose un’etica del non nuocere che rifiutava la violenza in tutte le sue forme, dalla manifestazione collettiva in un conflitto armato fino alle sottili agitazioni di rabbia e ostilità. Il fondamento di quest’etica si appellava all’empatia, la capacità di immaginarsi al posto degli altri: “Tutti gli esseri hanno paura della violenza, tutti hanno paura della morte. Impiegando sé stesso come criterio, uno non dovrebbe uccidere o causare la morte” (Dhammapada v. 129). Il primo precetto e il primo ambito dell’azione salutare richiedono di astenersi dal distruggere la vita. Il seguace sincero “abbassa il bastone e l’arma e dimora nella compassione per tutti gli esseri viventi” (MN 41:12). La retta intenzione, il secondo fattore dell’ottuplice sentiero, esige che non si rechi alcun danno. Il praticante è invitato a sviluppare una mente di gentilezza amorevole verso tutti gli esseri, come una madre verso il suo unico figlio (Snp 149).
Ma sebbene l’etica della non violenza possa essere stata utile come guida per il comportamento personale, il governo di uno stato presentava un dilemma morale, che i testi raramente affrontano. In un breve sutta (SN 4:20), il Buddha riflette su questa domanda molto stimolante: è possibile governare un paese in modo retto – senza uccidere e istigare altri ad uccidere, senza confiscare la proprietà degli altri, senza causare dolore? Non appena gli viene in mente questa domanda, Mara il tentatore appare e supplica il Buddha di abbandonare la sua vocazione monastica per governare. Il Buddha respinge la proposta di Mara con un’affermazione sulla miseria dei piaceri sensoriali: “Persino una montagna d’oro non sarebbe sufficiente per una sola persona”. Eppure, stranamente, il sutta non risponde alla domanda iniziale. Forse la questione fu deliberatamente lasciata irrisolta perché il Buddha (o i redattori) ritenevano che non fosse possibile una risposta inequivocabile. Eppure, l’omissione ci lascia con questo dilemma: cosa ne è del nostro impegno alla non violenza quando il male della guerra sembra necessario per prevenire un male più grande e distruttivo?
I sutta, e questo deve essere affermato con chiarezza, non ammettono alcuna giustificazione morale per la guerra. Pertanto, assumendo il punto di vista secondo cui i testi presentano dei valori morali assoluti, dovremmo concludere che moralmente la guerra non può mai essere giustificata. Un breve sutta dichiara inoltre in maniera categorica che un guerriero che muore in battaglia rinascerà in un inferno: ciò implica che prendere parte a una guerra è essenzialmente immorale (SN 42:3). Questo decreto, tuttavia, sembra incoerente con le nostre leggi attuali, che riconoscono condizioni secondo le quali il ricorso alle armi è permesso. Dunque, queste norme sono sbagliate, e sono semplicemente una prova ulteriore dell’ignoranza umana e della fallibilità morale?
I primi testi buddhisti non ignorano lo scontro potenziale tra il bisogno di impedire il trionfo del male e il dovere di osservare la non violenza. La soluzione che propongono, tuttavia, è sempre la non violenza persino di fronte al male. Un caso specifico è il SN 11:4 che narra la storia di una battaglia tra gli dèi, guidati da Sakka, e i titani, comandati da Vepacitti. Ad avere la meglio sono gli dèi, che catturano Vepacitti e lo portano nella loro città. Il servo di Sakka Matali incoraggia il padrone a punire il suo vecchio nemico, ma Sakka insiste che la pazienza e il perdono devono prevalere: “Chi ripaga un uomo pieno di ira con la collera peggiora le cose per sé stesso; rinunciando alla vendetta, si vince una battaglia difficile da vincere”. Anche le storie della Jataka insistono sulla necessità di seguire rigorosamente la legge della non violenza, persino se un sovrano viene minacciato da un nemico. La Jataka Mahasilava narra la storia di un re che era determinato a non versare mai una goccia di sangue, sebbene per questa ragione dovette perdere il suo regno, diventando prigioniero del nemico. Grazie al potere della sua gentilezza amorevole, il re riuscì a farsi rilasciare, a trasformare il suo aguzzino in un amico e a riappropriarsi del regno.
Nel mondo reale, tuttavia, è molto improbabile che i capi di stato adottino la meditazione sulla gentilezza amorevole come principale mezzo di dissuasione di aggressori determinati a un’espansione del territorio o alla dominazione globale. La domanda, dunque, ritorna: pur aderendo all’ideale della non violenza, come dovrebbe un governo affrontare minacce reali alla sua popolazione? E la comunità internazionale come può rispondere a una nazione che decide di imporre la sua volontà con la forza? Sebbene la non violenza assoluta possa essere la regola laddove non compaiano circostanze contrarie, situazioni specifiche possono risultare complesse sul piano morale, comportando istanze morali contrastanti. Il compito della riflessione morale è di aiutarci a farci strada tra queste istanze, ridimensionando la tendenza ad agire secondo le proprie convenienze egoistiche.
I governi vengono in parte legittimati a governare grazie alla loro abilità nel proteggere i cittadini da aggressori senza scrupoli determinati a conquistare il loro territorio e a soggiogare la popolazione. Anche la comunità globale, attraverso convenzioni e la mediazione di organi internazionali, cerca di proteggere uno stato relativo di pace – per quanto possa essere imperfetto – da coloro che userebbero la forza per soddisfare il desiderio di potere o per imporre programmi basati su un’ideologia. Quando una nazione viola le regole della coesistenza pacifica, l’obbligo di contenere l’aggressione può prevalere sull’obbligo di evitare la violenza. Pertanto, la Carta delle Nazioni Unite considera l’uso della forza come ultima risorsa, ma ne giustifica l’uso quando lasciare che il trasgressore persista senza alcun controllo causerebbe conseguenze più disastrose.
Le tensioni morali che incontriamo nella vita reale dovrebbero metterci in guardia dall’interpretare le prescrizioni etiche buddhiste come valori assoluti, senza riserve. Tuttavia, i primi testi buddhisti non riconoscono mai circostanze che potrebbero attenuare l’universalità di un precetto fondamentale o di un valore morale. Per risolvere la dissonanza tra l’idealismo morale dei testi e le necessità pratiche della vita di ogni giorno, io proporrei due contesti che potrebbero modellare le decisioni morali. Chiamerò il primo contesto liberatore, e l’altro contesto pragmatico karmico.
Il contesto liberatore si applica a coloro che cercano di progredire imperterriti nel modo più rapido possibile verso l’obiettivo finale del Dharma, l’estinzione della sofferenza. In questo contesto – che concerne la formazione in tre fasi del comportamento morale, la concentrazione, e la saggezza – astenersi dal nuocere intenzionalmente ad esseri viventi (specialmente esseri umani) è un obbligo rigoroso che non deve essere trasgredito mediante nessuna “porta dell’azione”, ovvero tramite il corpo, la parola, o la mente. Un regime rigoroso di non violenza è assolutamente inviolabile. Nel caso di una chiamata alle armi, sarà necessario diventare obiettori di coscienza o persino andare in prigione se non si offre alcuna alternativa. Se si viene posti dinanzi alla scelta di sacrificare la vita o di prendere la vita di un altro, bisogna essere disposti a sacrificare la propria vita, con la fiducia che tale scelta faciliterà il proprio progresso.
Il contesto pragmatico karmico offre una matrice di riflessione morale per coloro che seguono i valori etici buddhisti e cercano di avanzare verso la liberazione finale in maniera graduale, nel corso di varie vite, anziché direttamente. Si tratta soprattutto di coltivare buone qualità per facilitare il proprio progresso nel ciclo delle rinascite, pur continuando a perseguire le proprie vocazioni terrene. In questo contesto, le prescrizioni morali dell’insegnamento hanno il valore di indicazioni derogabili piuttosto che perentorie. Chi adotta questo quadro di riferimento riconosce che i doveri della vita quotidiana a volte richiedono dei compromessi rispetto agli obblighi rigorosi del codice morale buddhista. Pur continuando a considerare i più alti standard morali come un ideale, un praticante che adotta questo approccio è pronto a fare rare eccezioni di fronte a una necessità pratica. La prova dell’integrità in questo caso non è un’obbedienza incrollabile alle regole morali, bensì il rifiuto di metterle in secondo piano rispetto al mero interesse personale.
Ritengo che in tempo di guerra il contesto karmico possa giustificare l’arruolamento nell’esercito prendendo servizio come combattenti; ma in tal caso occorre sinceramente credere che la ragione dello scontro sia disarmare un pericoloso aggressore e proteggere il proprio paese e i suoi cittadini. Qualunque atto di uccisione derivante da una simile scelta sarebbe certamente una deplorevole violazione del Primo Precetto. Un fattore attenuante consisterebbe tuttavia nella visione psicologica del karma, che il Buddha definisce come intenzione, per cui la qualità morale della motivazione determina il valore etico dell’azione. Poiché gli scopi di una nazione nel ricorrere alle armi possono variare ampiamente – non diversamente dalle motivazioni personali nel partecipare ad una guerra – questo apre ad uno spettro di valutazioni morali. Quando la motivazione è l’espansione territoriale, la ricchezza materiale o la gloria della nazione, il ricorso alla guerra sarebbe moralmente deprecabile. Quando la motivazione è in una difesa nazionale genuina, o nell’impedire ad una nazione criminale di sconvolgere la pace nel mondo, la valutazione morale dovrebbe riflettere queste intenzioni.
Ciononostante, se ci si affida solamente alle affermazioni canoniche, la volontà di fare del male agli altri sarebbe sempre considerata “intenzione errata”, e tutti gli atti di distruzione della vita sarebbero classificati come nocivi. Ma quale giudizio morale possiamo dare quando i cittadini sostengono una guerra difensiva per proteggere il paese e i concittadini, o altre nazioni pacifiche, dall’attacco di un aggressore feroce, o vi prendono parte? Supponiamo di vivere negli anni ’40 quando Hitler stava perseguendo il suo sogno di dominazione universale. Se mi unissi a un’unità di combattimento, la mia partecipazione in questa guerra dovrebbe essere considerata moralmente reprensibile sebbene il mio scopo sia di bloccare la campagna sanguinaria di un tiranno senza scrupoli? Possiamo dire che la fedeltà al Dharma ci obbliga a rimanere passivi di fronte a un’aggressione brutale, o a cercare di negoziare quando è evidentemente inutile? Non sosterremmo che in questa situazione l’azione militare per fermare l’aggressore sia lodevole, persino doverosa, e che le azioni di un soldato possano essere giudicate encomiabili sotto il profilo morale? Allo stesso modo, se un poliziotto, nell’esercizio del suo dovere, è costretto a uccidere un assassino per salvare le vite di persone innocenti, non considereremmo questa come un’azione encomiabile anziché deplorevole?
Sia pure con esitazione, sentirei di dover adottare quest’ultima posizione. Nel fare questo, devo aggiungere che non sto cercando di giustificare nessuna guerra condotta dagli Stati Uniti con il pretesto di “difendere la nostra libertà”, o di condonare il comportamento spesso brutale della nostra polizia ipermilitarizzata. Togliere la vita è sempre l’ultima possibilità, e la più riprovevole. Ma ho l’impressione che in un mondo moralmente complesso, le nostre scelte e giudizi debbano riflettere la trama moralmente intricata delle situazioni con cui ci confrontiamo.
Ammetto di non poter giustificare il mio punto di vista richiamandomi a testi buddhisti, che si tratti di testi canonici o di commentari. Ho quindi l’impressione che l’etica del primo Buddhismo semplicemente non abbracci tutte le complessità delle circostanze umane. Forse non ne ha mai avuto l’intenzione. Forse l’intento era che questi testi servissero come linee guida anziché come valori morali assoluti, per offrire degli ideali anche a chi non sarà in grado di osservarle alla perfezione. Ciononostante, la complessità della condizione umana mette inevitabilmente di fronte a circostanze in cui gli obblighi morali incontrano uno scoglio. In questi casi, credo che dobbiamo semplicemente fare del nostro meglio per trovare un equilibrio, esaminando rigorosamente le nostre motivazioni, con l’aspirazione di ridurre la sofferenza del maggior numero di persone che si trovano in pericolo.
(Abbreviazioni: AN = Anguttara Nikaya; MN = Majjhima Nikaya; SN = Samyutta Nikaya; Snp = Suttanipata)